Ch'assolver non si può chi non si pente, né pentere e raccontare di altri insieme puossi per la contradizion che nol consente. ( Libero adattamento Dante Alighieri, Divina Commedia)
"Pentiménto s. m. [der. di pentire (cfr. pentirsi)]. – 1. a. Sentimento di rimorso, dolore, rammarico per aver fatto cosa che si vorrebbe non aver fatto (sia perché male in sé o tale considerata, sia perché dannosa, offensiva o spiacevole nei rapporti con altre persone, sia perché in contrasto con una norma di natura giuridica o morale), o al contrario per avere omesso di fare ciò che sarebbe stato doveroso o giusto fare; in partic., sentimento di dolore per le colpe e i peccati commessi in trasgressione delle leggi divine, dei comandamenti e precetti religiosi, della fondamentale legge dell’amore verso Dio e verso gli altri (in questo senso, è meno preciso di contrizione, termine a sua volta contrapposto ad attrizione, che è il pentimento determinato dalla paura della pena): avere, provare, sentire, mostrare pentimento; p. sincero; un p. improvviso. b. Più genericam., dispiacere o disappunto per avere fatto o non fatto una cosa, per avere seguito un comportamento diverso da quello che si giudica sarebbe stato opportuno o conveniente o comunque preferibile: nella mia vita, ho sempre deciso seguendo la ragione e la coscienza, senza pentimenti." ( Vocabolario Treccani )
Il pentimento è, in sintesi, un mutamento personale consapevole per cui la persona si pente di ciò che ha fatto, pensato, detto. Il pentimento avviene per la rielaborazione emotiva di quanto fatto in base alla proprie convinzioni culturali, religiose e filosofiche.
Arthur Schnitzler, ne Il libro dei motti e delle riflessioni 1927, definisce il pentimento, e a mia opinione abbastanza correttamente, come un sentimento difficilmente vero e nascente dal profondo ma come un operazione tesa ad ottenere dei vantaggi più o meno immediati più o meno dilatati nel tempo.
Sembra banale ma il tempo è l'altra variabile importante nell'elaborazione del pentimento o sul suo utilizzo. Per i credenti delle tre maggiori religioni monoteiste ( cristianesimo, islam, ebraismo ) all'avvicinarsi della Morte è diffuso un maggiore utilizzo dei differenti riti di espiazione e di confessione per ottenere il perdono ed entrare nell'aldilà con la benevolenza divina e quindi con indubbi vantaggi.
Il pentimento vero, profondo è interiore e coinvolge le sfere profonde della personalità in cui il processo di rielaborazione dell'evento è lento per non intaccare la percezione del sè. La persona che intraprende questo percorso rielabora i fatti e ne dà una differente interpretazione a se stesso e li modifica, da parti di se a ricordi, senza però la possibilità di cancellarli in quanto la psiche si ribellerebbe pesantemente vedendo la rimozione dell'evento come un attentato alla sua integrità.
Per quanto detto, sia dal punto di vista religioso, sia dal punto di vista antropologico il pentimento è un operazione che nasce dal profondo del privato individuale e non può coinvolgere altri in questo percorso individuale.
Qui nasce un discorso a cui il mondo nazional popolare è molto sensibile e a volte con reazioni incomprensibili. Nel semplice parlare la parola pentito assurge a significato negativo, rivoltante e non tollerabile senza soffermarci un attimo a pensare. E' legittimo che una persona si penta del proprio percorso politico, del proprio matrimonio e la risposta sana in entrambi i casi è cessare l'attività politica e divorziare.
Poi però in discorso purtroppo molte volte, troppe volte cambia. Il supposto pentimento diviene delazione. Io posso pentirmi di aver fatto una rapina, e assumermene le responsibilità e la conseguente penitenza, ma non posso coinvolgere in questo mio pentimento altri che non ritengono di doversi pentire. I meccanismi che portano a queste scelte ignobili sono estremamente semplici, oserei dire primitivi.
Il bisogno di affermare il proprio ego. Denigrando altri ed addossando ad altri le maggiori nefandezze possibili la visione di se viene ampliata e addirittura migliorata ci si sente eroi per aver avuto il coraggio di dire e raccontare e si ottiene uno status che probabilmente nella vita non si ha mai avuto. Bisogno che emerge in alcuni verbali ove non è l'evento il centro della dichiarazione ma bensì il delatore stesso.
Il bisogno di ottenere benefici giudiziari. Stare in carcere o subire interrogatori prolungati per giorni e giorni non è certo piacevole e la sirena di ottenere dei benefici, anche miserabili come una lettera in più al mese, innesta un meccanismo di "sopravvivenza" e si cede quindi alle promesse di benefici che il legislatore ha previsto per questi comportamenti. In questo caso prevale l'istinto animalesco di sopravvivenza e sopratutto la promessa di non essere più il male assoluto ma di essere una brava persona che ha semplicemente sbagliato e una volta presa la china della delazione non c'è più via d'uscita.
Il bisogno di vendicare supposte ingiustizie patite. In alcuni tipologie di personalità esiste l'incapacità di reggere la frustrazione di un no o di un limite posto o di un proprio limite. Questa incapacità può generare rabbia e sensi di rancore tali che l'unico modo è di vendicarsi di altri, trascinandoli in gironi penitenziari ed aule di tribunale affinchè anche gli altri soffrano come il delatore. Sembra assurdo ma è un meccanismo che esiste e che leggendo certi verbali emerge con chiarezza se si ha l'attenzione di leggerli anche con un occhio disincantato.
In tutti e tre i casi incide, come già detto, il fattore tempo o meglio lo scorrere del tempo e quindi la necessità per il delatore di fluire nel tempo il più velocemente possibile e il più comodamente possibile
Non voglio nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi di delazione conseguenti a pratiche di Waterboarding.
Nero Monterosa