Introduzione alla Lega del Vento Divino
Non deve stupire che nella collana « Trobar Clus » appaia un'opera dedicata al misterioso e affascinante Giappone. Si può constatare, a titolo di curiosità, che il trovadore provenzale ebbe il suo corrispettivo nel Giappone del XIII-XIV secolo, nelle sbira-byôshi, cantanti e danzatrici educate assai finemente; queste donne-trovadori cantavano le vicende di celebri guerrieri con avventure spesso tratte o derivate dai Ghenji Monogatari o dagli Heike Monogatari.
Pierre Pascal, il profondo e appassionato conoscitore del Giappone, della sua anima e dei suoi costumi, ha acutamente steso un ponte ideale congiungente la cavalleria medioevale occidentale ai samurai dell'Impero del Sol Levante. Egli pone sullo stesso piano lo Hagakuré di Jocho Yahamoto ed i romanzi cavallereschi dei cicli Carolingi o di Huon, accomunati nel tracciare le regole di « una Cavalleria che fu ancestralmente universale, comune a tutte le razze dello spirito ».
Sarà forse bene ricordare che lo Hagakuré « all'ombra delle foglie », composto nel XVII secolo da un samurai, al quale il suo signore morendo aveva imposto di astenersi dal seppuku, fu il testo guida di Yukío Mishima che scrisse: « l'Hagakuré è il padre della mia letteratura ».
Nel testo che presentiamo il posto centrale è assegnato alla « Lega del Vento Divino » di Tsunanori Yamao; affiancata uno scritto di Míshíma sulla Tate no Kai (Associazione degli Scudi) da lui fondata e stralci tratti da classici giapponesi. Proveniendo questi testi parte dal voluminoso trattato dell'Auriti e parte da traduzioni di seconda o terza mano, dall'inglese e dallo spagnolo, possono essere presenti probabili alterazioni della forma letteraria (nel Tate no kai Míshima ci descrive con quale cura, da alchimista, costruisca i suoi romanzi); crediamo però che si sia mantenuto mantenuto intatto lo spirito e l'intima essenza.
Il primo stralcio, tratto dai Kojíkí, ha fondamentale importanza nella letteratura, nella storia e nella religiosità giapponesi. I Kojiki, annali delle cose antiche terminati nel 712, cioè in periodo Nara, rappresentano il primo testo redatto in lingua giapponese a nostra disposizione (uno anteriore andò perso). Vi è però da osservare che i giapponesi, scrivendo nella loro lingua, non si valsero di una propria scrittura bensì dei caratteri cinesi.
L'importanza storico-religiosa dei Kojiki (storia e religione sono in Giappone intimamente concatenate) consiste nella descrizione del sorgere dell'arcipelago nipponico e nella legittimazione dell'origine divina della dinastia imperiale.
L'arcipelago giapponese nasce dall'unione fra Izanagi, « il maschio che invita », e Izanami, « la femmina che invita »; l'arcipelago veniva chiamato Kami no Kuni, cioè Paese degli Dei, sia per la sua origine che per gli spiriti che lo popolavano. In questa fase mitologica si inserisce un episodio che ha una stretta similitudine con il mito d'Orfeo. Izanami muore dopo aver dato alla luce il Dio del Fuoco; Izanagi scende a cercarla nel Paese delle tenebre da cui ella promette di tornare purché lui non la veda. Ma egli accendendo una torcia scorge la sua persona putrefatta e fugge. Uscito dal Paese delle tenebre compie il rito della purificazione, che consisteva nel lavare la propria persona e nello spargere acqua e sale; come per greci e romani infatti acqua e sale erano sostanze purificatrici. Dal suo occhio sinistro nasce Amaterasù-ô-mí-Kami la dea del sole. Dopo varie dispute con il fratello Tachehaia Susa no uo, l'eroe maschio, Amaterasu chiama il nipote Ninigi no Mícoto cui affida, come segni del mandato celeste lo specchio, la spada ed il gioiello; tali simboli si sostiene siano tuttora esistenti e da essi la dinastia imperiale giapponese, discendente per linea non interrotta da Ninigi, trae il carattere divino della sua autorità. Jímmû, nipote di Ninigi conquista Yamato, regione nel centro dell'isola principale, simbolo del Giappone, focolaio della sua cultura. La data di celebrazione delle sue vittorie, nel 660 a. C., è considerata quella di fondazione dell'Impero.
I Kojiki divennero le scritture fondamentali dello shintoismo, o « via dei Kami », ove Kami è un essere sacro, superiore, miracoloso.
Lo shintoismo, omaggio alla memoria degli antenati, è un complesso di credenze e di riti. « Ignorando le nozioni di « dogma » e di « peccato », lo shintoismo propone all'uomo un « cammino per essere Dio » (Kannayara-nomitchi). L'armonia con la natura, la dirittura nell'azione, la pietà filiale, il rispetto altrui: tali sono le virtù che celebra sopra ogni cosa ». (P. Pascal, Nouvelle Ecole, n. 29, Paris, pag. 72).
« Concezione totalmente teocratica dell'ordine degli esseri, lo shintoismo non è una religione popriamente detta, ma piuttosto una religiosità sottile e fervida che induce l'uomo a seguire i buoni impulsi del cuore. Lo shintoismo è dunque una pura emanazione dell'anima giapponese... Esortando i propri fedeli ad amare la patria - chiamata « Terra degli Dei » - ed a venerare un imperatore di sangue divino, lo shintoísmo, religione di stato, non poteva ispirare che rancore e diffidenza alle democrazie cristiane vittoriose » (La via dell'Eternità, pag. 173). Per cui, in omaggio alle tanto proclamate libertà religiose, il giannizzero Douglas Mc Artur abolì lo shintoismo e fece chiudere centomila templi e cappelle.
Altri stralci offerti all'attenzione dei lettori sono tratti dal Heike Monogatari, racconto degli Heike, che narra della lotta tra Ghenjí o Minamoto e Heike o Taira. Fu composto, pare, da monaci nel XIII secolo e contiene pagine fra le più belle e commoventi della letteratura giapponese: mirabili quelle che descrivono la morte del piccolo Imperatore Antoka. Questa lotta, che marcò il limite fra il periodo Heian e il periodo Camacura, segnò il passaggio del potere dai Taira ai Minamoto.
Il periodo Heian fu caratterizzato da eventi che dovevano risultare d'influenza fondamentale sul futuro assetto giapponese. Vi furono violenti combattimenti contro popolazioni del nord, gli Aìnú, da alcuni studiosi ritenuti di origine indo-europea e da altri aborigeni. Sottometterli si dimostrò impresa non facile, anzi gli Aínú compirono frequenti incursioni nei territori meridionali. Fu necessario formare nella regione orientale, nel Qúantó, una guarnigíone locale permanente. Necessitò approntare tre campagne, le prime due senza alcun esito, la terza con risultati più soddisfacenti. Da questa guerra sorsero i componenti essenziali del feudalesimo nipponico: lo shogun, i daimyo e i samurai. Durante la terza guerra contro gli Ainù il comandante ebbe il titolo di Seii Taisbogun ossia generalissimo. In questo periodo sorsero due grandi clans, entrambi imparentati con la dinastia imperiale: i Taíra o Heike nel IX secolo ed i Minamoto o Ghenjí nel X. I capi di tali clans saranno i futuri daimyo, aristocrazia fondata sul possesso di sboen, vasti appezzamenti di terreno esenti da imposte, e sulla forza dei loro samuraí.
L'epilogo dello scontro fra i Taira ed i Minamoto fu, nell'aprile del 1185, la battaglia navale di Dan-no-ura fra le isole di Honskfi e KyCtsba. La vittoria arrise ai Minamoto e I'« Heíke Monogatari », in pagine vivissime, ce ne descrive la conclusione quando la nonna dell'Imperatore, Nií-no-ama, per sfuggire ai Minamoto, si lanciò nelle acque profonde abbracciata al giovanissimo Imperatore.
Nel 1185, con la vittoria del clan dei Mínamoto il titolo di shogun o generalissímo diviene vitalizio ed è esteso a tutto il Giappone e alle sue forze armate. Yoritomo Minamoto divenne il primo shogun. Sarà forse curioso notare che chi gli succedette, se non formalmente certo nella realtà. fu la propria vedova Masako che, alla sua morte, si era fatta monaca e che il popolo soprannominò ama-shogun, « nonna-generalíssimo ». Masako apparteneva al clan dei Taira e per poterla sposare Yoritomo aveva dovuto rapirla!
In quegli anni fu grande l'influenza esercitata dalle dame di corte sulla letteratura giapponese. Fra le più importanti vissute attorno al 1000, vi sono: Sei Sci5nagon, Murasacbi Scíchibu e Izumí Scícbibu. Scicbibú e Scinagon erano termini di cariche di corte.
Il massimo capolavoro della letteratura giapponese è il Ghenjí Monogatari, citato da Mishima nel Tate no Kai. Composto da sei libri narra le avventure di Ghenji, leggendario principe figlio di un Imperatore che si immagina vissuto fra la fine del 900 e il principio del 1000. Dotato di una tale bellezza che sarà chiamato il Risplendente, divenne membro del clan dei Minamoto; si ricordi che i Minamoto erano anche chiamati Ghenji.
Il Ghenji Monogatari, inno alla bellezza della natura e alla vita di corte, fu terminato agli albori dell'Xl secolo da Murasachi Scichiba, nome che si può rendere con « Violetta del cerimoniale »; nella letteratura giapponese le scrittrici sogliono utilizzare pseudonimi tratti dalle cariche di corte di padri o mariti.
Altro genere letterario in voga in quel periodo è il diario; fra tutti il più noto è il Macura no sósci, libro del capezzale, redatto da Sei Scinagon, parente, come Marasachi, della famiglia imperiale.
La « Lega del Vento Divino » è parte integrante di un bel romanzo di Mishima, « Cavalli scatenati / irruenti », titolo originale Homba. Sotto la firma Tsunanori Yamao si cela forse Mishima stesso?
Questo breve racconto appare in ogni caso come il naturale ed ideale sbocco dei Kojiki e dell'Heike Monogatari. Enorme è la tensione ideale che scaturisce dalle sue pagine. Lo si potrebbe definire un mosaico dell'anima giapponese e nello stesso tempo un'opera premonitrice: immediato è infatti l'accostamento fra « La Lega del Vento Divino » e la Tate no Kai di Mishima. Come non vedere poi nell'eroico samurai Harukata Kaya che aspira a presentare pubblicamente le sue avvertenze ed indi porre immediatamente termine alla sua vita con il seppuku lo stesso Mishima? Precisamente in questo consiste l'ultimo atto terreno dello scrittore nipponico. Il 25 novembre 1970, come è noto, Yukio Mishima con quattro seguaci: Masakatsu Morita, Hiromasa Koga, Masayoshi Koga e Masabiro Ogawa, irrompe nel quartier generale delle forze nipponiche di autodifesa. Dopo aver brevemente arringato i soldati compie il seppuku rituale, subito seguito da Morita; gli altri tre sono bloccati dai militari riusciti a penetrare nell'ufficio ove i cinque si erano barricati. Così si compie nella realtà quanto lo scrittore aveva più volte descritto nei suoi romanzi.
Tornando alla « Lega del Vento Divino » ricorderemo che il racconto trae spunto da una delle insurrezioni di samurai scoppiate agli inizi dell'era Meijí. I primi anni di quell'era furono infatti travagliati e confusi, essendo vivo il timore dei patrioti nipponici che l'influsso occidentale potesse indebolire e corrompere lo spirito del Yamato. I protagonisti della insurrezione, tutti di stretta osservanza shintoista, si unirono in una lega dal nome ormai celebre anche in occidente: Kamikaze, Vento Divino.
Il riferimento è alla divinità del vento che per ben due volte salvò il Giappone dalle orde provenienti dalla Cina di Kubilai, figlio del primogenito di Gengbis Khan. Il primo tentativo di invasione fu effettuato nell'ottobre del 1274 con un esercito di 30-40.000 uomini. Il secondo tentativo, ben più temibile, poté contare su una flotta sterminata, approntata dai coreani (Marco Polo ne dà una descrizione) e su un esercito di 100-150.000 uomini fra mongoli, cinesi e coreani. Vi furono durissimi scontri per più di cinquanta giorni finché il 14 agosto 1281 un tifone, di cui nessuno dubita l'origine divina, si abbatté sugli invasori. Il Giappone fu un'altra volta salvo.
Ciò che più gli uomini della Lega paventano è la decadenza dei costumi, generata dall'intrusione dei barbari. Questa si verificò massivamente a seguito degli interventi del Commodoro americano Perry. Il 7 luglio 1853 questi si presenta con quattro nere navi da guerra per imporre dei trattati commerciali; si ripresenterà nel febbraio del 1854 con sette navi facendo comprendere allo shogunato la necessità di cedere.
Fra coloro che non vogliono giacere sotto l'oppressione straniera si contrappongono due tendenze: quella di coloro che vogliono chiudersi rigidamente nella propria tradizione e, contrapposta, quella di chi ritiene più utile studiare i mezzi degli stranieri per poterli meglio contrastare. Gli uomini della Lega sono per la prima via e per mostrare la purezza dei loro intenti si sollevano usando solo l'arma tradizionale giapponese, la spada. Questa scelta non era dettata soltanto dal desiderio di contestare clamorosamente un recente editto che proibiva di portare quest'arma, ma anche per riaffermare la propria fedeltà e dedizione agli Dei immortali. La spada infatti oltre ad essere, per eccellenza, l'arma dei bushi è uno dei simboli sacri affidati dalla dea Amaterasú al nipote come testimonianza visibile di autorità e divinità.
Anche questa insurrezione, come le altre, fallisce sul piano materiale, ma si conclude con un'apoteosi spirituale. Quasi tutti i sopravvissuti dopo aver bevuto una tazza di sake e composto un tanka si infliggono il seppuku. L'autore ci mostra che tale costume non era precluso alle donne; infatti la dolce e coraggiosa Ikiko Abé accompagna il marito nel « viaggio » divino. Questo ci ricorda che lo shíntoismo non tenne affatto la donna in condizione d'inferiorità, anzi le diede la sua più venerata divinità; Amaterasu, la dea del sole.
A dimostrazione di quanto l’esercito imperiale stimasse gli insorti, nonostante li combattesse all'ultimo sangue, si pensi che Saigo Takamori, artefice e bandiera dell'insurrezione, il quale si era praticato il seppuku vedendo naufragare i suoi tentativi, fu inumato solennemente e con tutti gli onori.
Ma il sangue non fu versato inutilmente; questi scontri rappresentarono una catarsi da cui sorse quel Giappone allo stesso tempo moderno e antico, perfetto padrone delle tecnologie più avanzate poste nelle mani di uomini per i quali concetti di onore, lealtà ed amore sono eterni, più forti del fuoco e della morte. Di questa tempra fu il conte Nogi che nel 1912, alla morte dell'Imperatore Mutsumito, in pieno XX secolo. compì il junsbi, il seppuku rituale con cui si accompagnava nella morte il proprio signore. La sua sposa lo seguì nel viaggio eterno. Il vincitore di Port-Arthur lasciò il seguente poema d'addio:
Abbandonando una vita fuggitiva, il mio sovrano è salito fra gli Dèi.
e con il cuore pieno di gratitudine che lo seguo.
Da questo spirito, da questa cultura e civiltà millenarie sorgono i kamikaze, i terribili e stupendi guerrieri dell'ultimo conflitto mondiale. Con la fronte cinta dal bashimaki, la candida fascia decorata col rosso cerchio della Dea solare ed i quattro ídeogrammi che auspicano « sette vite per servire la Patria », questi cavalieri leggendari picchiavano con i loro velivoli imbottiti d'esplosivo sui nuovi selvaggi invasori, per salvare l'impero del Sol Levante e assurgere, già dèi, al cielo.
« Questi aviatori - secondo la bella lingua giapponese, tutti insieme kesshitaí o « decisi a morire » e bissitai o « votati a morte certa » - erano nikudan o « proiettili umani », volontari nell'animo e nella coscienza... (La via dell'Eternítà, pag. 366). Essi rinnovarono il iíbaku, la più arcaica forma di seppuku, che si effettuava gettandosi sul nemico.
Il 16 ottobre 1944 il contrammiraglio Arima Masabumi al comando di un bombardiere riesce a superare lo sbarramento antiaereo americano e a lanciare il suo velivolo nel cuore della portaerei Franklin distruggendola.
Forse è quest'atto, certo frutto di uno spirito comune a tutti i piloti, che dà il via alla creazione del nuovo corpo speciale.
Tre giorni dopo, il 19 ottobre 1944, l'ammiraglio Onishi Takiiiró, da non più di dieci giorni comandante della flotta del Sud-ovest, giunge al campo d'aviazione di Malabacat. Chiama a rapporto gli ufficiali della 201' squadra e nel silenzio più assoluto propone di riempire d'esplosivo gli apparecchi da caccia e schiantarsi con essi sulle navi nemiche. Per la prima volta un comandante chiede ai suoi subalterni di organizzare un corpo speciale per i cui componenti la morte è certa, anzi è attraverso la loro morte che si realizza il successo della missione. Gli ufficiali chiedono di potersi consultare; poco dopo il loro superiore si ripresenta all'ammiraglío manifestando la loro completa approvazione alle sue tesi ed arrogando alla 201° squadra l'onore di organizzare l'unità speciale.
Nella notte Inogucbi Rikihei, sottocapo di stato maggiore della l' Flotta Aerea, si presenta dall'ammiraglio Onísbi pregandolo di voler battezzare « kamíkaze » la nuova formazione.
L'indomani mattina, a sole poche ore dalla proposta di costituzione, l'ammiraglio passa in rassegna le prime quattro squadriglie: Shikishima, Yamato, Asabi, Yamazakura. Questi nomi l'ammiraglio li aveva tratti da un tanka del XVIII secolo di Motoori Norinaga:
Shikisbima no
Yamatogokoro wo
hito towaba
asabi ni niou
yama-zakura bana
che si può rendere, in una versione non letterale:
Se vi si domanda qual è lo spirito dell'eterno Giappone, rispondete: esso è, come i fiori di ciliegio ai primi raggi del sole mattutino, puro, chiaro e deliziosamente profumato.
Lo stesso giorno la squadriglia Yamato decolla per il campo avanzato dell'ísola di Cedu; è l'inizio di un'epopea moderna che però conserva intatto tutto il sapore di una saga antica.
La notizia della creazione del corpo kamìkaze fa fremere il Giappone; a migliaia giungeranno i volontari dalle facoltà universitarie, dai campi e dalle fabbriche. Non saranno mai gli uomini a mancare alla nuova formazione; faranno difetto i mezzi.
L'ammiraglio Ugakí Matome organizza una nuova unità speciale, la Jinrai Butaí, la « Folgore Divina ». I piloti disporranno di Oka, fiore di ciliegio, specie di bomba pilotata con 1.200 chili d'esplosivo. Portata da un bombardiere può essere lanciata da 6.000-8.000 metri d'altezza ed a una trentina di chilometri dall'obiettivo; può piombare sul bersaglio alla velocità di 1.000 chilometri all'ora. L'Oka più che a un velivolo assomiglia ad un siluro e ci ricorda nella forma i « maiali » della X Flottiglia Mas; l'accostamento non è solo nel mezzo, dato che lo spirito che animava questi combattenti della R.S.I. non fu certo molto dissimile da quello dei piloti che si erano scelti come simbolo il sakura, il fior di ciliegio giapponese.
Ma giunge il 6 agosto Hiroshíma e il 9 Nagasaki: 300.000 motti, nella quasi totalità civili, vecchi, donne e bambini. L'eroismo dei moderni samuraí, che ormai non sono più una casta ristretta ma tutto un esercito, non ha potuto far fronte ai più criminali strumenti di morte usati dall'uomo, sempre che umani si considerino coloro che hanno approntato l'arma atomica compiendo con essa, su civili indifesi, il più bestiale fra gli « esperimenti scientifici ».
Del 15 agosto 1945 è l'ordine di servizio per l'ultima missione kamikaze: « Tre bombardieri attaccheranno il nemico a Okinawa, sotto il comando personale dell'ammiraglio Ugaki ». A mezzogiorno viene trasmesso il messaggio imperiale di resa ma l'ammíraglio non modifica l'ordine. Sulla pista l'attendono non tre ma undici velivoli. Sette di loro arriveranno su Okinawa da dove, attraverso l'etere, giunge l'ultimo messaggio dell'ammiraglio Ugaki:
« Fu completamente per mia colpa se le forze che comando non sono più riuscite a schiacciare il nemico e a proteggere la patria, malgrado i combattimenti eroici condotti dai miei equipaggi in questi ultimi sei mesi... Stò per picchiare sul naviglio nemico a Okinawa, ove tanti dei miei uomini si sono sfogliati come fiorì di ciliegio per rispettare le tradizioni dei nostri antenati, con una fiducia assoluta nella perpetuità dell'Impero e nella nobiltà dello spirito kamíkaze. Mi auguro che tutti coloro che comando comprendano i motivi della mia condotta, superino le loro future prove e lavorino con tutto il loro cuore per la rinascita della nostra grande Patria affinché essa viva eternamente. Banzaí! ».
Il Giappone onora 4.615 kamikaze immolatisi perché l'impero del Sol Levante continui ad essere l'immortale Paese degli Dei. Al loro eroico sacrificio si possono applicare le strofe di un poema composto all'inizio del secolo:
« Noi abbiamo combattuto da vivi noi abbiamo combattuto da morti
perché i nostri spiriti accompagnavano i nostri camerati,
la nostra opera è compiuta, abbiamo raggiunto i nostri antenati
e preso il nostro posto fra i nostri glorificati eroi ».
Eppure non è stata risparmiata loro neanche l'onta di definizioni e accostamenti insultanti da parte dei pennivendoli di un Occidente dimentico delle sue stesse tradizioni e corruttore delle altrui. Non ci si deve però stupire; obbiettività e buona fede non hanno dimora nella pubblicistica capital-comunista.
Raymi