Prima pagina
La grande e indiscussa protagonista della nostra epoca è la tecnica. E’ proprio grazie alla tecnica che l’uomo moderno può controllare la natura, trasformarla a suo piacimento, spezzando di netto il legame che lungo i millenni lo hanno mantenuto unito ad essa come un cordone ombelicale. Questa vera e propria rivoluzione copernicana ha sortito l’effetto di stravolgere gli equilibri consolidati da tempi immemorabili: il figlio della Terra e del Cielo si è ribellato agli antichissimi genitori e ora, per servirsene senza il minimo scrupolo quando e come vuole, ritiene di poter loro imporre dispoticamente la sua legge. Dunque la tecnica ha sortito l’effetto di trasformare l’atteggiamento dell’essere umano di fronte a se stesso, alla natura, al sacro; l’uomo di oggi non soltanto si ritiene ormai l’unico artefice del proprio destino, ma anche l’arbitro incontrastato della sorte degli altri esseri viventi e dell’intero pianeta. Si tratta di una pericolosa illusione che gli sta già costando carissima: interrompendo in modo così radicale il rapporto con la natura egli ha rinnegato se stesso e si è avvicinato sempre più alla condizione subumana della macchina; per questo motivo quella che un tempo era la comunità, un organismo integro e pulsante, capace di corrispondere in ogni sua espressione alle aspirazioni più profonde del singolo individuo, si è trasformata oggi in società, una serie di monadi disperate fluttuanti in uno stato di perenne e invincibile isolamento. Tuttavia quello che davvero conforta e mette definitivamente a tacere le fastidiose recriminazioni moralistiche di alcuni per la decadenza in atto, è il pensiero che non è sempre stato così. Guardiamo, per esempio, al passato dell’Occidente: intendo dire ai grandi insegnamenti che ci vengono e che ancora adesso dovremmo saper rimeditare non per alimentare nostalgie, ma per meglio orientare il nostro presente e il nostro futuro. Già in passato è stato possibile che un’intera civiltà vivesse in armonia con la natura, con il divino (un’armonia relativa, certo, ma comunque sia decisamente superiore a quella di cui si è dimostrata capace la nostra civiltà), e che dunque costituisse una vera comunità, un organismo in piena salute: tutto ciò è accaduto in Grecia 25/30 secoli fa. Ma se, come io credo, questa armonia fra uomo e natura è effettivamente già stata realizzata in passato, essa potrà tornare ad essere realizzata di nuovo. Proprio i Greci, infatti, ci insegnano una grandiosa verità: il tempo naturale e quello degli uomini (la”storia”) sono entrambi caratterizzati da un medesimo movimento ciclico: è precisamente questa verità che Platone intende trasmetterci quando, con una bella immagine, definisce l’universo un “animale divino”. Le epoche si susseguono e ritornano come le stagioni: nel cerchio del tempo tutto ricompare periodicamente in forme sempre diverse, cosicché ogni popolo, come del resto ogni uomo ed ogni essere vivente ha una sua primavera ed un suo autunno, conosce gli anni giovanili, la culminazione dell’età adulta, il declino della vecchiaia, la morte ed infine la rinascita sotto nuove spoglie. Un popolo può essere definito civiltà quando tutte le sue espressioni, siano esse religiose, artistiche o politiche, presentano invariabilmente una solida unità di stile ispirata ad una visione sacrale e spirituale del mondo che le anima dal loro interno rendendole eccezionalmente vitali, esuberanti, in costante espansione; ma smarrito il senso della sacralità dell’esistenza della natura, esso perde anche la sua identità forte finendo per decomporsi in una massa informe dominata dalle passioni più basse ed essenzialmente priva di una effettiva autonomia politica. Sarà appunto la concezione organica e metamorfica della storia, così tipica degli antichi, il filo d’Arianna che ci guiderà nel nostro itinerario poetico dalle sponde greche a quelle romane del mar Mediterraneo.
Orfeo
La civiltà dunque non può fare a meno del rapporto vivificante con il sacro e dei simboli che ne costituiscono la vera e propria lingua iniziatica, comune a tutta l’umanità fin dall’inizio dei tempi. Ma la civiltà, proprio in quanto le sue fondamenta riposano sull’esperienza del sacro che viene avvertito in ogni manifestazione della natura, non può fare a meno neppure dell’arte: Goethe scrisse giustamente che “colui al quale la natura comincia a rivelare il suo palese segreto, sente un desiderio della sua più degna interprete, l’arte”.
E’ così che, risalendo indietro alle remote origini della spiritualità greca, ci imbattiamo nella figura leggendaria di Orfeo, un poeta considerato l’autore di numerosi e venerabili libri, il quale è nello stesso tempo un iniziato, fondatore di una corrente esoterica (che da lui prende il nome) molto celebre nell’antichità. Orfeo non è un uomo qualsiasi, ma il figlio di una Musa e l’allievo prediletto del dio Apollo; perciò nessuno lo supera quanto all’abilità con cui egli sa cantare e suonare riuscendo ad ammansire le belve, far danzare le pietre e commuovere persino il dio dell’oltretomba, Ade, che gli consente, unico fra i mortali, di riportare sulla terra la sposa Euridice uccisa dal morso di un serpente. Orfeo conosce tutti i segreti degli dei e li ricorda ai suoi iniziati: di qui l’importanza assunta nei testi orfici da Mnemosyne, la Memoria, divinità che più di ogni altra deve onorare chiunque voglia incamminarsi sul sentiero della liberazione.
Tu conducevi Euridice
per mano sui violetti
asfodilli, e Orfeo t’era innanzi
coronato di cipresso
e di mirto il capo suo d’oro.
E intorno era sacro silenzio
ma ad ogni passo silente
gemere s’udia la gran cetra
sospesa al fianco d’Orfeo
Sentisti tu tremare
la man di colei che traevi
dall’Ade su i cari vestigi?
E obliato non hai ogni altro
tremito di carne mortale
tu che i miseri uomini ignudi
avvincevi ai supplizzi?
Intorno era sacro silenzio,
ma s’udia nel Tartaro lungi
rombare la ruota aspra d’angui
cui tu avvincesti Issione.
Ed ei si volse, ei si volse,
Orfeo si volse! La donna
perduta fu, dallo sguardo
perduta! Ritrarla dovevi
nelle inesorabili fauci.
Mirasti i due volti, e quegli occhi?
Euridice! Orfeo! Notte eterna.
Ah parlami di quel dolore,
di quella bellezza!
E poi fa che io beva l’oblio.
(Gabriele D’Annunzio da “Maia”)
Inno alla Notte
Canterò la Notte, madre degli dei e degli uomini.
Notte, origine di tutte le cose, ti chiamerò anche “Cipride”,
ascolta, dea beata, scura, luminosa come le stelle,
tu che godi della calma e del riposo profondo,
tu gioia, diletto, amante delle veglie, madre dei sogni:
ascolta, tu che, benevola, fai dimenticare le ansie e finire le pene;
ascolta, dispensatrice del sonno cara a tutti gli esseri, tu, cupa auriga,
Notte, incompiuta, per metà terrestre e per metà celeste,
che ti muovi in cerchio, tu, danzatrice vagante nel cielo,
che invii la luce agli Inferi e di nuovo fuggi
nell’Ade - la tremenda necessità comanda su tutto - :
ora ti invoco, beata, felice, desiderata da tutti,
Notte ospitale, che ascolti la voce di che prega:
possa tu venire, propizia, dissolvendo le paure che porta il buio.
Laminetta sepolcrale di Turi
Vengo dai puri pura, o regina degli inferi,
Eucle ed Eubuleo, e voi altri dei immortali,
poichè io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe felice!
Ma il destino, gli altri dei immortali
e la folgore scagliata dalle stelle mi sopraffecero.
Volai via dal cerchio che dà affanno e pesante dolore
e salii a raggiungere l’anelata corona con i piedi veloci,
poi m’immersi nel grembo della Signora, regina degli inferi,
e discesi dall’anelata corona con i piedi veloci.
“Felice e beatissimo, sarai dio anzichè mortale”.
Agnello, caddi nel latte.
Laminetta sepolcrale di Ipponio
Questo sepolcro appartiene alla Memoria. Quando ti toccherà di morire
andrai alle case ben costruite di Ade: sulla destra c’è una fonte,
e accanto ad essa un bianco cipresso diritto;
scendendo là le anime dei morti si raffreddano.
Non avvicinarti troppo a questa fonte:
troverai davanti ad essa fredda acqua che scorre
dalla palude della Memoria; sopra vi stanno i custodi,
che ti chiederanno nel loro denso cuore
cosa vai cercando nelle tenebre di Ade funesto.
Tu rispondi:”Sono figlio della Terra greve e del Cielo stellato,
sono riarso di sete e muoio; datemi subito
l’acqua fredda che scorre dalla palude della Memoria”.
Essi ti lasceranno bere dalla fonte divina
e in seguito governerai insieme ad altri eroi.
Questo sepolcro appartiene alla Memoria...
Eschilo
Cuatro son las historias, quella di un ritorno, quella di una ricerca, l’ultima è quella del sacrificio di un dio, ma la prima, la più antica, è quella di una forte città assediata e difesa da uomini coraggiosi. I difensori sanno cha la città sarà consegnata al ferro e al fuoco e che la loro battaglia è inutile; il più famoso degli aggressori, Achille, sa che il suo destino è di morire prima della vittoria. I secoli aggiunsero elementi di magia. Si disse che Elena di Troia, per la quale tanti eserciti morirono, era una bella nuvola, un’ombra; si disse che il grande cavallo vuoto nel quale si nascosero i Greci era anch’esso un’apparenza. Omero non sarà stato il primo poeta che raccolse la favola; qualcuno, nel XIV secolo lasciò questa riga che vaga nella mia memoria: The borg britenned and brent to brondes and askes. Dante Gabriel Rossetti avrebbe poi immaginato che la sorte di Troia fosse stata segnata nell’istante in cui Paride brucia d’amore per Elena: Yeats doveva scegliere l’istante in cui si confondono Leda e il cigno che era un dio.
(Jorge Luis Borges da “L’oro delle tigri”: I quattro cicli)
Da Zeus ebbero il colpo, possono dirlo,
è facile trovarne gli indizi.
Ebbero la sorte che egli dispose.
Alcuno nega che gli dei si degnino
di curare se i mortali calpestano leggi intangibili;
ma è empio costui.
La rovina appare generata
dalla protervia
di chi spira orgoglio più acceso del giusto
da quando la sua casa si arricchì
oltre misura.
Basti essere immuni da affanni
a far lieto chi è saggio.
Non vi è riparo allo sterminio
per l’uomo che, imbaldanzito
dalle ricchezze, ha diroccato
il grande altare della Giustizia.
Lo sospinge funesta la Persuasione
figlia incontrastabile della Sciagura a cui conduce.
Vano ogni rimedio: la colpa non si soffoca,
anzi brilla, bagliore sinistro:
come rame cattivo
si copre di grumi neri
se per saggiarlo
lo sfreghi e lo batti,
fanciullo che insegue un uccello nell’aria
attira sulla città spaventosa rovina.
Neppure le invocazioni alcuno dei numi più ascolta;
il malvagio si avvoltola tra colpe,
destinato a perire.
Tale anche Paride
entrò nella reggia degli Atridi
a insozzare la mensa dell’ospite
col rapirgli la donna.
Lasciando indietro ai cittadini
scontri di scudi e di lance
e dall’allestire vascelli,
portando in Ilio per dote la morte,
lieve passò attraverso le soglie,
osando l’inosabile. Gli indovini del palazzo
rompevano in gemiti fitti:
“Ohi, ohi, reggia, reggia e re,
ohi, sposa partita verso l’amore.
Vedi il silenzio umiliato, senza singhiozzi,
d’un uomo che siede in un angolo inesorabile.
Un’ombra nascerà dall’amore, e la donna al di là del mare
sembrerà governare ancora la casa”.
La grazia maliosa delle immagini
irrita lo sposo
nel vuoto degli occhi
si perde ogni amore.
Nei sogni appaiono malinconiche ombre
a portare un vano sollievo.
Vano, chè quando crede trovar la gioia,
attraverso le mani
la visione gli sguscia, già lontano
portata dalle ali sui sentieri del sonno.
Questi i dolori seduti sui focolari della reggia,
questi e di questi più gravi.
Ma dovunque quanti salparono dall’Ellade
lasciarono dolore
ad accasciare le loro dimore;
e molti si sono affondati nei cuori.
Quegli che ciascuno salutò,
li rivede, ma in luogo di vivi
urne di cenere
sotto i loro tetti rientrano.
Ares, il cambiavalute di carne
che regge la bilancia delle aste durante la mischia,
dal rogo d’Ilio manda polvere agli amici
pesante di lacrime amare,
e urne rase all’orlo di cenere
in cambio di uomini.
Piangono, tessendo le lodi del soldato,
questo esperto a manovrare sul campo,
quello caduto da eroe nella mischia...
“Per la donna di un altro”,
borbotta taluno rompendo il silenzio;
dolore ed astio serpeggiano
contro gli atridi vendicatori.
Altri attorno a quelle stesse muraglie
sul suolo d’Ilio hanno il sepolcro,
belli ancora;
la terra nemica avvolse i vincitori.
Grave alla fama è il rancore dei cittadini;
le maledizioni del popolo devono essere scontate.
C’è un’ansia sospesa in me
di udire un mistero affondato nell’ombra.
Gli dei non distolgono gli occhi
da chi spense molte vite.
Col tempo le neri Erinni,
mutando il sentiero della vita,
portano all’abisso chi è felice contro giustizia;
e ai caduti non resta soccorso.
Troppa fama è pericolosa,
Zeus centra la folgore
sulle pupille dell’umanità.
Approvo la felicità che non susciti invidie.
Che io non sia distruttore di città,
e neppure, caduto schiavo,
veda passarmi la vita sotto il giogo di un altro.
da “Agamennone”
Omero
“Gli eroi, i credenti e gli amanti non muoiono interamente; in ogni epoca essi vengono riscoperti, e in questo senso il mito riemerge in ogni tempo”. E’ una bella frase di Ernst Junger che si attaglia in modo perfetto alla poesia di Omero (i cui protagonisti sono, appunto, eroi, credenti e amanti) e al fascino che essa continua a sprigionare ancora aggi. Che Omero sia esistito o meno dal punto di vista storico è questione che può certo interessare gli specialisti e i curiosi, ma non chi come noi, intende porsi da una prospettiva per così dire “panoramica” in cui tutto ciò che si presenta come singolo e individuale è sempre e solo il simbolo di una più alta realtà, in continua metamorfosi, che ne giustifica l’esistenza. Omero, e Vico lo aveva rapito, rappresenta dunque un’emanazione dell’anima greca: L’amore adolescente dei Greci è per Elena, la Bellezza, intesa come linfa primigenia che dà forma e sostanza alla vita di un intero popolo. Se sanno ancora inebriarsi alla vista di Elena, dice Omero in un indimenticabile episodio dell’Iliade, perfino i vecchi possono ritornare giovani, dimenticare se stessi, Troia, la guerra; c’è una profonda e stupefacente verità contenuta in questo, una verità che è una cosa sola con l’enigma dell’eros e della creazione artistica.
Elena e i vecchi troiani (Iliade, III, 121 - 158)
Iride, la messaggera, venne presso Elena dalla bianche braccia,
sembrando la cognata, sposa del figlio di Anténore.
La trovò nella sala: tesseva una grande tela,
spessa, di porpora, e ricamava le molte prove
che i Troiani domatori di cavalli e gli Achei dai chitoni di bronzo
subivano per lei, sotto la forza di Ares.
Standole accanto, Iride dal passo rapido disse:
“Vieni qua, cara sposa, a vedere le azioni ammirevoli
dei Troiani domatori di cavalli e degli Achei dai chitoni di bronzo;
prima gli uni agli altri portavano la guerra lacrimosa
nella pianura, bramando lotta e distruzione,
ora stanno seduti in silenzio: la guerra è cessata,
e si appoggiano agli scudi, mentre le lunghe aste sono infitte vicino.
Ma Alessandro e Menelao caro ad Ares
lotteranno per te con le aste lunghe:
tu sarai la cara sposa del vincitore”.
Dicendo così, la dea le mise nel cuore un dolce desiderio
del suo primo marito, dei genitori, della città.
Subito, coprendosi di bianchi veli,
uscì dalla stanza, versando una tenera lacrima:
non era sola, ma la seguivano anche due ancelle.
Giunsero in fretta dov’erano le Porte Scee.
I compagni di Priamo, Pantoo e Timete,
Lampo, Clitio, Icetaone rampollo di Ares,
Ucalègonte e Antènore, entrambi saggi,
erano seduti, loro, anziani, presso le Porte Scee:
diventati vecchi avevano smesso di combattere, e tuttavia
erano parlatori nobili, simili alle cicale che in mezzo al bosco,
stando sopra una pianta, emettono una voce fiorita:
così sedevano i capi dei Troiani presso la torre.
Essi allora videro Elena venire verso la torre,
e a bassa voce parlavano fra loro con parole fugaci:
“Non è da biasimare che i Troiani e gli Achei dagli schinieri robusti
soffrano a lungo per una donna simile:
terribilmente, a vederla, essa somiglia agli dei immortali !”
Saffo
“Cos’è la vita, cos’è mai la gioia, senza Afrodite d’oro ?”, si era chiesto il poeta Mimnermo, ritenuto dagli antichi il padre dell’elegia amorosa; la stessa domanda si ripresenta, all’incirca negli stessi anni, nella poesia di Saffo, ma con una forza e insieme una grazia mai più raggiunte in seguito dalla letteratura antica. Il presupposto del realismo erotico di Saffo consiste in una strabiliante attitudine visionaria portata al massimo grado di tensione e di espressività: in questo senso, offrono una stupenda testimonianza i versi iniziali del frammento, giustamente famoso, che descrivono l’apparizione di Afrodite sopra a un carro trainato da pariglie di passeri, oppure i versi dell’altrettanto celebre frammento 31 ripreso da Catullo ( con l’incipit “ille mi par deo esse videtur”). Anche e soprattutto in Saffo, allora, il ricorso al mito non significa volontà di fuga dalla natura: al contrario, il mito, toccando e illuminando le dinamiche di una realtà essenziale come quella dell’amore, apre squarci nel velo di Maia, e si impone come forma privilegiata di conoscenza.
In quella lontananza indistinta corrrono le alte montagne dell’Ida
Corre l’età leggera
Parla d’Afrodite d’oro,
la dea di Cipro dalle dolci imprese:
di lei che desta amore negli dei,
che domina la razza dei mortali,
governa gli uccelli altovolanti,
gli animali che la terra nutre
senza fine o che guizzano nei mari.
Le sue opere stanno in ogni cuore.
Giunse sull’Ida dalle molte fonti,
madre di belve e sveltamente andava
alla meta cercata, per le cime.
Al suo seguito amabili di colpo
quieti andavano i grigi lupi e gli orsi,
gli orgogliosi leoni, le veloci
pantere ingorde di indifesi daini:
e al guardarli, illuminata di gioia
nella mente e nel cuore trasfondeva
nei loro petti frenesia d’amore.
Figlia di Zeus, immortale Afrodite
dal trono iridato: tu che intrecci i nodi
ti prego, non domarmi il cuore, o dea,
ma scendi, se, ascoltando la mia voce
da lontano, altre volte mi hai esaudito.
Lasciata la casa del padre, aggiogato
il carro d’oro, sei venuta, e sulla terra nera
ti recavano rapidi i bei passeri,
battevano fitto le ali fra cielo e aria
in un istante furono qui.
Tu sorridevi beata, nel tuo viso immortale,
chiedevi perchè soffrivo ancora, che cosa ancora invocavo, e cosa
di più la mia anima folle voleva avere
“Chi devo persuadere a tornare all’amore tuo?
Chi, Saffo, ti fa soffrire?
Se ora ti fugge, presto ti seguirà;
se ora non li accetta, ti offrirà doni;
se ora non ama, amerà, se pure non lo volesse”.
Corri per me, liberami dal dolore, fai tutto quello
che il mio cuore vuole si compia
tu stessa per me combatti.
Simile agli dei mi appare
quell’uomo che ti specchia rapito,
vicino, e la voce soave ti assorbe
e il riso amoroso: e questo
mi atterrisce dentro il petto il cuore.
Oh, mi basta vederti, e di colpo
non mi resta più voce,
la lingua s’è franta, rapido
un fuoco sottile corre dentro la carne,
con gli occhi non vedo più, le orecchie
rombano,
il sudore m’inonda, tutta mi cattura
il tremore, sono più verde dell’erba
e poco mi manca a morire.
Cos’è la vita, cos’è mai la gioia,
senza Afrodite d’oro?
Meglio morire il giorno in cui si debba
rinunciare al segreto degli amori,
ai teneri regali, ai piaceri del letto così rari, così giovani fiori:
opaco di tristezza il tempo avanza
con la vecchiezza che imbruttisce e sconcia
e nel cuore è un impero d’ansia amara.
Non mi reggono più, queste ginocchia,
ragazze mie che limpide cantate e fossi
almeno fossi
l’alcione maschio che sorvola a fiore
l’onda del mare e non gli trema il cuore,
tra le alcioni, mutevole colore
di tempesta viola.
La luna se n’è andata
ed esse pure, le Pleiadi, e fa notte
e il tempo vola:
io qui, accucciata. Sola.
Tu sei venuto e hai fatto bene, hai fatto bene.
Era il momento e io, una smania sola
di ritrovare il caldo del mio cuore.
Lei che stava per lasciarmi piangeva
a dirotto e parole mormorava:
io le risposi allora: sii felice
nel tuo andare e di me, se puoi, ricorda:
di me che sai quanto mi stavi a cuore.
Ma quello che tu scordi voglio
ricordare per te: le dolci ore
che passarono care fra noi,
lo zafferano, le viole e rose
che intrecciate in ghirlande mi porgevi,
le odorose corone che allacciavano
al tuo fragile collo, amati fiori;
e la mirra versata e i molli unguenti
di cui per me ti cospargevi, e ancora
il tuo profumo di regina... e infine,
come su un letto di dolcezza fonda
presso me consumavi il desiderio...
e in quei giorni non c’era una collina
o un altare o un ruscello ove non fosse
di noi sempre viva la presenza:
e primavera un fitto canto alzava.
Da capo mi tortura
Eros che spezza
la figura del corpo:
dolce amarezza ancora
invitta bestia.
Vecchiaia già divora la mia pelle, Eros ha smesso di seguirmi in volo
vecchiaia già divora la mia pelle,
i miei capelli neri ormai sbiancati...
Le ginocchia mi cedono se voi, agilissime cerve, ad una danza
muovete il passo, lieve:
e a me, cosa resta da fare?
E’ impossibile, quasi, d’accettare:
per me che solo in una vita bella
trovo modo d’amare,
per me che solo nella luce d’oro
trovo qualche valore...
Io ti amo, io, la venerata dea sovrana di Cipro. Ti assicuro...
Ein tutti i luoghi dove il sole brilla,
la scintilla di te sarà gloriosa,
sarà luce persino nell’oscuro
dominio dove l’Acheronte scorre...
Cos’è che ti balena innanzi agli occhi?
Ermes è apparso,
mi ha visitato in sogno e gli ho risposto:
Signore mi perdo e ho perso gusto
d’essere fiera della mia grandezza.
Mi tenta un desiderio di sparire,
di vedere le rive d’Acheronte,
l’umidore che nutre il fior di loto,
il fiorire che sta sulla discesa
che all’abbraccio di Ade ci conduce.
Cosa resta da fare?
Ho scritto versi come fatti d’aria:
e qualcuno li ama
Pindaro
Nell’epoca in cui vive Pindaro, l’età arcaica, pervengono a compiutezza i caratteri più vitali dello spirito ellenico: “Il senso del distacco, l’essere sempre al di fuori di fronte a ciò che si presenta, l’opporsi ad ogni trascinamento e ad ogni livellamento”, come ha scritto Giorgio Colli. E’ stupefacente rilevare, però, come un simile atteggiamento nei confronti dell’esistenza non sfoci mai nel misticismo: l’uomo greco di questo periodo non rinuncia affatto alla bellezza corposa e sacra del mondo, all’amore, alla guerra, alla zuffa politica, all’agonismo. Perciò agli occhi di un poeta arcaico come Pindaro anche una gara di carri nello stadio di Olimpia può trasformarsi in un’occasione per parlare degli dei e per raccontare miti ereditati da una tradizione millenaria. Narrando miti, cioè eventi che per gli antichi erano realmente accaduti, Pindaro prosegue nel solco dell’antica poesia dei Greci, la cui funzione originaria consisteva nell’esprimere ciò che essi consideravano il valore supremo: la SOPHIA, la sapienza, il cui possesso, sia tra gli uomini che tra gli dei, è la prerogativa irrinunciabile di ogni vera aristocrazia.
da “Maia” - Gabriele D’Annunzio
Ed improvviso apparve
fiammeo di porpora coa,
pari a inestinguibile vampa, nella moltitudine solo,
più solo dell’aquila a sommo
del monte, il monarca degli inni.
“Aquila, aquila” io dissi
“onde torni sì radiante?
M’odi! Rispondi! Per gli astri,
pei vulcani, pei lampi,
per le meteore, per tutto
ciò che arde, per la sete,
nel Deserto e il sale nel Mare,
odimi, volgiti all’ansia
pedestre. Ch’io senta il tuo sguardo
e il tuo grido fendermi il petto!
Aquila, onde vieni?” “Dal sole.
Battei l’ali sulle cervice
del suo corsiere più bianco
per affrettar la sua corsa
all’ultimo Vertice azzurro”
Per il Re di Siracusa
Preziosa è l’acqua, l’oro
spicca come bivacco della notte
fiore della ricchezza e del potere:
mio cuore,
se brami celebrare gare d’uomini
non cercherai nel cielo solitario
un astro più del sole chiaro e ardente:
non canteremo prove
più di queste di Olimpia elette.
Da qui l’inno si leva in mille voci
avvolgendo gli spiriti sapienti
che sono giunti a celebrare Zeus
al focolare ricco di Ierone
che nella Sicilia fertile di frutti
regge alto uno scettro di giustizia,
e miete il fiore
d’ogni valore umano,
e musica perfetta
l’illumina, e molte volte
il nostro gioco d’uomini,il convito.
Stacca dunque dal gancio
la lira dorica,
se la grazia di Pisa, se Ferenico
ti colmò il cuore d’una dolce pena
quando lungo le rive dell’Alfeo
si lanciò senza pungolo alla corsa
e travolse alla vittoria il suo signore,
il re che dei cavalli si rallegra,
il re di Siracusa.
Brilla la sua gloria
nella colonia dei forti,
quella che fu di Pelope di Lidia,
amato dal possente Posidone
quando Cloto lo tolse dal lebète
puro, col bianco omero d’avorio-.
Molti sono i prodigi,
e spesso la leggenda dei mortali
va oltre il vero.
Antiche storie, arazzi
multicolori, ingannatori, illudono.
La bellezza che ai mortali
dona tutta la gioia,
e glorifica, spesso
dà fede all’incredibile: ma i giorni,
i giorni che continuano,
testimoniano ricchi di sapienza.
Sia bella la parola
umana sul divino. E’ giusto. E’ colpa
minore. O figlio di Tantalo, io
dirò di te come prima non dissero.
Quando tuo padre ti chiamò alla mensa
perfetta là sul monte amato, il Sìpilo,
e rendeva agli Dei il convito, il Dio
del Tridente di luce
vinto da amore ti rapì
sulle cavalle d’oro e ti portò
alla dimora altissima e gloriosa
là dove ancora Ganimede venne
così a servire Zeus.
Più nessuno ti vide.
Uomini anelanti ti cercavano
e non ti riportavano alla madre.
Subito uno dei vicini tristi
disse segretamente
che nel bollore più denso dell’acqua
avevano trinciato con la spada
le membra tue, avevano tritato,
avevano spartito la tua carne,
l’avevano inghiottita.
Voraci, assurdi Dei che nego
e rifiuto. Molte volte
chi male disse ebbe la mala sorte.
Se mai un mortale
i Signori dell’Olimpo hanno onorato,
questi fu Tantalo.
Ma la grande fortuna ebbe indigesta,
e fu saziato
di vendetta e sventura.
Il Padre sospese
un immane macigno sul suo capo,
che lui sempre tenta
stornare, e sempre vaga lontano
dalla sua pace.
Pena immobile, eterna, irrimediabile.
Quarta delle sue pene.
Perchè rubò agli Dei
il nettare e l’ambrosia
che l’avevano fatto incorruttibile
e ne diede ai compagni della mensa.
L’uomo che spera
di celare qualcosa a un Dio, s’inganna.
E gl’Immortali gettarono suo figlio
ancora sulla terra
tra gli uomini dalla breve sorte.
Appena una bruna lanugine
germinò sulle guance
pensò alle nozze
che a tutti il re di Pisa offriva,
di avere la famosa Ippodamìa.
Andò subito al bianco mare,
solo nella grande ombra,
invocò il Dio dall’eco profonda,
il Dio del Tridente.
E gli apparve vicino al suo piede.
“Se è vero (gli disse) che l’amore
è un ricordo di grazia,
lega la lancia bronzea di Enomao,
portami su uno dei tuoi carri più rapidi
in Elide, dammi la vittoria.
Ha ucciso tredici pretendenti
e sempre rimanda le nozze della figlia.
Un grande pericolo non vuole
un mortale senza coraggio.
Se morire è destino,
perchè riposare nell’ombra
fino a un’ignota e inutile vecchiaia,
senza nessuna di tutte le bellezze?
Ma ecco la promessa di questo premio.
Concedimi la bella impresa!”
Queste parole non furono vane.
Il Dio lo glorificò,
gli diede un carro d’oro
e instancabili cavalli alati.
Così prese la forza d’Enomao
e il letto della vergine.
Gli generò sei figli,
condottieri dalla virtù audace.
E ora con tutti partecipa
alle luminose feste sacrificali
e riposa lungo il passaggio dell’Afleo.
La sua tomba è presso l’ara più frequentata,
tutti gli passano vicino.
E’ la gloria di Pelope che splende
nell’arena d’Olimpia, nelle corse
veloci, nelle punte della forza
aspra, audace. Chi ne ha il premio
godrà una vita limpida, serena.
Il più alto dei beni ad ogni uomo,
quello di sempre, giorno dopo giorno.
E so che mai inno al nostro tempo
avvolgerà tra le gloriose pieghe
ospite più di lui
signore del sapere e del potere.
Un Dio ti guarda e pensa
ai tuoi disegni e se ne prende cura,
Ierone. E se presto non mi lascia
spero di celebrare con un canto
più gradito il tuo agile carro,
verrò sul Cronio limpido di sole
in cerca del sentiero generoso
della poesia. La Musa
nutre per me le frecce più possenti.
Ognuno ha il suo trofeo, ma il supremo
è dei re. Non scrutare oltre, mai.
Possa tutto il tuo tempo
percorrere le vette,
e io essere compagno ai vincitori
chiaro tra i Greci, ovunque, di sapienza.
Lucrezio
e sequor, o Graiae gentis decus
te seguo, gloria del popolo greco
400 anni sono ormai trascorsi dalla morte di Pindaro, nella Roma del I secolo a.C. . E’ prossima la fine di un ciclo. La progressiva eclissi dell’antica religione, la crisi dell’originaria città stato che precede lo sviluppo della metropoli caput mundi, ispirano il manifesto di un poeta. “Te sequor, o graiae gentis decus” e non stupisce il consenso, impensabile in condizioni normali, ottenuto presso individualità straordinarie come quelle di Lucrezio, dalla filosofia epicurea, meno che mediocre quanto a contenuti speculativi, ma dall’altro lato bene adeguata a interpretare fedelmente le tendenze disgregatrici dell’epoca. Alla luce della follia di Lucrezio si può intuire anche l’intrinseca debolezza della pretesa scientifica di conoscere le cose rinunciando al confronto con la terribile evidenza del divino celato in ogni fenomeno del mondo.
La lotta degli atomi ( II, 114-128 )
Guarda i raggi di sole, quando fondono le opache tenebre delle case:
vedrai una moltitudine di piccoli corpi che si mescolano nel fascio di
luce e ingaggiano una lotta infinita: nascono battaglie, si formano
squadroni e senza tregua si succedono incontri e squarci.
Vedrai così l’eterna agitazione dei corpi nel vuoto e i gorghi che
rivelano altri cechi gorghi, annidati in fondo alla materia.
Il mondo come rappresentazione ( II,317-332 )
Lentamente camminano i montoni sulla collina, dove li chiama l’erba
della nuova rugiada, e gli agnelli giocando si scontrano tra di loro. Ma
da lontano i nostri occhi vedono solo una macchia confusa, una specie
di candore immobile nel verde del colle.
Più in là numerose legioni riempiono correndo il campo di battaglia e
gridano i simulacri della guerra: il bagliore si alza e tutta la terra
s’illumina di riflessi, i passi violenti degli uomini vibrano sul terreno e i
monti, colpiti dalle loro grida, le alzano verso gli astri; i cavalieri
volteggiano lì intorno e all’improvviso si gettano lungo i campi che
tremano sotto il galoppo.
Ma c’è un luogo, tra le più alte montagne, da cui sembrano immobili e
si vede solo una macchia di luce distesa sul campo.
La maledizione di Venere ( IV, 1107-1120)
E non appena Venere semina il campo della donna, gli amanti
intrecciano avidamente i corpi, mescolano la saliva, assorbono il respiro
dell’altro schiacciandogli la bocca con i denti: sforzi inutili, perchè non
possono carpire nulla nè entrare con tutto il corpo in quel corpo ( ed è
questo che vogliono fare, lottando e stringendo i legami di Venere,
quando le loro membra si fondono, disfatte). Alla fine, non appena il
desiderio accumulato nel sangue trova uno sbocco, il loro agitarsi ha
una pausa. Ma poi riprende la stessa rabbia e la stessa frenesia. Non
sanno cosa cercare e non possono trovare rimedio per il loro male: si
decompongono così, in una misteriosa ferita.
Virgilio
All’austera semplicità della vita e dell’etica contadina contrappone la triste realtà della città, di Roma, luogo di corruzione, teatro di lotte fratricide e di basse manovre politiche. Più ancora di Lucrezio Virgilio è un sapiente, senza dubbio il più sapienziale fra i poeti latini. Egli sa con certezza chel’Italia delle origini, la terra un tempo abitata dai popoli rurali rievocati con tanto amore nell’Eneide, sta per finire, travolta dall’avanzare di una nuova specie umana.
La decadenza dell’Italia durante le guerre civili ( Georgiche, III libro)
Infine, è il sole che preannuncia cosa la tarda sera condurrà, da dove il vento porterà tempo sereno e che cosa preparerà l’umido Austro. E chi mai oserebbe dire che il sole mente? Egli ci avverte spesso di foschi tumulti e di come, nell’ombra, covino le guerre e la frode: Dopo che Cesare morì ucciso, il sole ebbe pietà di Roma, quando si coprì di ruggine oscura il capo fulgido e gli uomini, empi, temettero la notte eterna. In quel tempo anche la terra, però, anche il mare, le cagne impudiche e gli uccelli inopportuni davano segni profetici. Quante volte vedemmo l’Etna rovesciare dai crateri squarciati globi di fuoco sui campi dei Ciclopi e lanciare massi liquefatti! In tutto il suo cielo la Germania udì un fragore di armi; le Alpi tremarono a causa di un insolito terremoto. Fu pure udita nel sacro silenzio dei boschi una voce alta, furono visti pallidi spettri nel buio della notte e le bestie (cosa orribile!) parlarono; i fiumi si fermarono, il suolo si aprì in voragini, l’avorio nei templi piangeva e bronzi trasudavano. L’Eridano, il re dei fiumi, straripò e distrusse con la sua folle piena i boschi, travolgendo nei campi stalle e bestiame. In quel tempo nei visceri infausti apparivano continuamente fibre nefaste, dai pozzi emergevano onde di sangue, nelle alte città rieccheggiavano gli ululati notturni dei lupi vagabondi. Dal cielo sereno non cadde mai una tale quantità di fulmini nè arsero tante e più minacciose comete. Filippi vide scontrarsi di nuovo fra loro con armi identiche due eserciti Romani; e agli dei non sembrò indegno che l’Emazia e i vasti campi dell’Emo venissero nutriti due volte del nostro sangue. E verrà il tempo in cui il contadino, smuovendo in questi campi la terra con il curvo aratro, troverà le lance corrose dalla ruggine scabra, urterà con il rastrello elmi vuoti e stupito vedrà nei sepolcri sconvolti grandi ossa.
Orazio
Tis àristos bios, qual è la vita migliore?
Philodocos bios, la vita per la gloria?
Philotimos bios, gli onori pubblici?
Philedonos bios, per i piaceri?
Philocrematos bios, per le ricchezze?
A queste domande Orazio risponde: “Io, grazie all’edera che è premio alla fronte dei sapienti, sono unito agli dei”.
Ma in lui è particolarmente acuta la percezione della precarietà della vita, della fugacità del tempo, soprattutto lo disorienta il lento tramontare degli antichi valori.
Odi, libro secondo, 14
a Postumo
Ahimè Postumo, rapidi, Postumo,
fuggono gli anni e non c’è preghiera
che ti eviti l’aggressione delle rughe,
la vecchiaia, il confronto con la morte,
anche se t’illudessi per tutta la vita,
amico mio, di strappare con offerte
senza fine una lacrima a Plutone:
fra le sue onde di tenebra incatena
esseri incredibili, quelle onde
che chiunque viva su questa terra,
dal più povero al più potente, tutti
noi siamo destinati a navigare.
Non serve evitare i rischi della guerra,
le scogliere dove s’infrange l’urlo del mare;
non serve difendersi ogni autunno
dai venti che corrodono le ossa.
Credimi. Conosceremo il fiume della morte,
il suo navigare inerte, opaco e le figlie
maledette di Danao e Sìsifo
incatenato per sempre alla sua pena.
Lasceremo i campi, la casa, la donna
che amiamo e degli alberi che ora coltivi
nessuno, se non questo cipresso odioso,
seguirà un padrone così effimero.
Il tuo erede, meno sciocco, si berrà
il cecubo che difendi con cento chiavi
e di quel vino generoso,che sfida le cene
dei pontefici, bagnerà la terra.
A questo senso di vuoto e di sfacelo, Orazio reagisce con risentito vigore e resta per fortuna un antico quando non indulge a nessuna forma di compiacimento per la decadenza in atto nel suo tempo.
Odi, libro terzo, 6 la virtù degli antichi
Senza tua colpa dovrai scontare, romano,
i delitti dei padri, finchè non avrai
ricostruito i templi, i santuari
in rovina e le statue lorde di fumo.
Tu domini, perchè in onore hai gli dei:
in loro è il principio e la fine di ogni cosa;
il disamore per gli dei causò
all’Italia in pianto un cumulo di mali.
Già due volte Monese e le schiere di Pàcoro
per mancanza d’auspici infransero gli assalti
nostri, ed esultano d’avere aggiunto
bottino al filo delle loro collane.
E poco mancò che etiopi, e daci, temuti
i primi per la flotta e più abili gli altri
a scagliare le frecce, distruggessero
la nostra città in preda alla discordia.
Con tutti i suoi vizi quest’epoca inquinò
il matrimonio, poi la razza e la famiglia:
da questa fonte venne la rovina,
che dilagò sul popolo e sulla patria.
La fanciulla che fiorisce apprende con gioia
le danze ioniche, si scaltrisce a sedurre
e sin dalla sua più tenera età
fantastica in cuore amori proibiti.
E subito ai banchetti del marito adesca
fra i giovani gli amanti; ma spente le luci
non sceglie più, regala in fretta e furia
quelle gioie che non dovrebbe concedere,
e il marito è consenziente, quando invitata
in mezzo a tutti si leva, sia che la chiami
un mercante o un armatore spagnolo,
che paga lautamente l’umiliazione.
No, da gente simile non nacquero i giovani
che di sangue punico macchiarono il mare
e abbatterono Pirro, l’agguerrito
Antioco e Annibale, quel maledetto:
erano figli intrepidi di agricoltori
soldati, addestrati con la vanga sannitica
a rivoltare la terra e per ordine
severo della madre a portare i tronchi
tagliati, quando il sole mutava sui monti
le ombre e suggeriva di sciogliere dal giogo
i buoi affaticati, riportando
col suo carro in fuga l’ora del riposo.
Tutto logora l’imperversare del tempo:
i nostri padri, peggiori dei loro avi,
ci fecero così da meno e noi
concepiremo figli più vili ancora:
Rutilio Namanziano
Nel 417 d.C. un funzionario imperiale di origine gallica residente a Roma, Namaziano, si vede costretto a rientrare in patria per difendere le sue proprietà dalle invasioni dei barbari Goti, che stanno mettendo a ferro e fuoco le città e le campagne della Gallia. Namaziano decide di narrare l’esperienza di questo viaggio, compiuto per mare perchè impossibile via terra, in un poema composto in distici elegiaci e intitolato “ De reditu suo” ( Il ritorno). Namaziano osserva intorno a sé sempre e soltanto i segni dell’immane distruzione in atto: le campagne sono abbandonate e se stesse, le città cadono in rovina, l’originaria virtus romana non vive più, e l’impero si trova interamente in balia dei traditori, degli usurai, dei politici corrotti. Particolarmente critico è l’atteggiamento del poeta verso i cristiani, accusati di odiare il genere umano a causa del loro ascetismo incomprensibile per un civis romanus come Namaziano.
I monaci della Capraia ( De reditu suo, I, 439-452)
Avanzando ancora sul mare, ecco stagliarsi la Capraia;
l’isola è squallida, piena di uomini che fuggono la luce.
Essi chiamano se stessi “monaci”, con una parola greca,
perchè vogliono vivere soli, senza testimoni.
Hanno timore dei doni della sorte, e nello stesso tempo dei suoi colpi.
Ci può essere qualcuno che sceglie di essere infelice per non diventarlo?
Quale delirio di mente sconvolta può essere così insano che
mentre temi il male non riesci a tollerare il bene?
Forse sono ergastolani che scontano i crimini commessi,
oppure il loro fegato è gonfio di nera bile.
Omero attribuisce all’eccesso morboso di bile
l’angoscia di Bellerofonte:
si dice infatti che il giovane, colpito da fitte di atroce dolore,
prese in odio il genere umano.
Le rovine di Populonia ( De reditu suo, I, 401-414)
Si alza un vento contrario, ma anche noi cominciamo a remare,
facendo a gara, quando la luce del giorno toglie le stelle alla vista.
Populonia, ormai vicina, distende il suo lido
là dove il golfo si insinua fra i campi.
Qui non eleva la sua mole che arriva fino al cielo
l’isola di Faro, perchè la sua luce notturna si veda lontano;
gli antichi, invece, trovata una solida rupe con la forma di una vedetta,
vi costruirono un castello avendo un duplice scopo:
difendere la terraferma e guardare il mare.
Non è più possibile riconoscere i monumenti del passato:
il tempo vorace ha distrutto le grandi mura;
si vedono soltanto vestigia interrotte:
sepolti dal peso dei ruderi giacciono i tetti.
Non indignamoci se il corpo mortale si dissolve:
davanti agli occhi abbiamo l’esempio che perfino le città possono morire.
Namaziano, figlio di una di queste “genti diverse” eleva alla grande madre ormai esausta il più fervido ringraziamento per averlo fatto per sempre civile e romano.
Ascoltami, regina bellissima del mondo che è tuo,
Roma, accolta fra le stelle del cielo!
Ascoltami, o madre degli uomini, o madre degli dei:
in virtù dei tuoi templi non siamo distanti dal cielo.
Un’unica patria hai fatto di tante genti diverse.
Ai popoli giovò essere dominati da te.
E mentre offrivi ai vinti di partecipare alla tua legge
hai fatto di tutto il mondo una sola città.
Fecisti patriam diversis gentibus unam
Urbem fecisti quod prius orbis erat.
Macchiavelli
Donec templa refeceris, finchè non avrai ricostruito i templi, purificata la terra.
Niccolò Machiavelli nel capitolo XI dei “discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” scriveva:
“Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di Roma, perchè quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese.”
Carmen Arvale
E nos, Lases, iuvate,
e nos, Lases, iuvate,
e nos, Lases, iuvate!
Neve lue rue, Marmar, sins incorrere in pleores,
neve lue rue, Marmar, sins incorrere in pleores,
neve lue rue, Marmar, sins incorrere in pleores!
Satur fu, fere Mars, limen sali, sta ber ber,
satur fu, fere Mars, limen sali, sta ber ber,
satur fu, fere Mars, limen sali, sta ber ber!
Semunis alternei advocapit conctos,
Semunis alternei advocapit conctos,
Semunis alternei advocapit conctos.
E nos, Marmor, iuvato,
e nos, Marmor, iuvato,
e nos, Marmor, iuvato!
Triumpe triumpe!
triumpe triumpe!
triumpe!
Canto Arvale
Noi, O Lari, assistete;
noi, o Lari, assistete;
noi, o Lari, assistete!
Non fare, o Marte, che peste e rovina cada sul popolo;
non fare, o Marte, che peste e rovina cada sul popolo;
non fare, o Marte, che peste e rovina cada sul popolo!
Saziati, Marte feroce; sali la soglia; fermati là, là;
saziati, Marte feroce; sali la soglia; fermati là, là;
saziati, Marte feroce; sali la soglia; fermati là, là!
Ciascuno, a voci alterne, chiamerà i Semòni;
ciascuno, a voci alterne, chiamerà i Semòni;
ciascuno, a voci alterne, chiamerà i Semòni!
Noi, o Marte, assisti;
noi, o Marte, assisti;
noi, o Marte, assisti!
Trionfo trionfo trionfo trionfo trionfo!
Carmen lustrale
Mars pater te precor quaesoque
uti sies volens propitius
mihi domo familiaeque nostrae.
Quoius rei ergo
agrum terram fundumque meum
suovetatem vastitudinemque
calamitates intemperiasque
prohibessis defendas averruncesque;
ut fruges frumenta vineta virgultaque
grandire dueneque evenire siris
pastores pecuaque salva servassis
duisque duonam salutem valetudinemque
mihi domo familiaeque nostrae.
Harunce rerum ergo
fundi terrae agrique mei
lustrandi lustrique faciendi ergo
sicuti dixi,
macte hisce suovetaurilibus
lactentibus immolendis esto.
Mars pater eiusdem rei ergo
macte hisce suovetaurilibus
lactentibus esto.
Canto Lustrale
Marte padre, ti prego e t’invoco:
sii benigno e propizio
a me, alla casa e alla famiglia nostra.
Per questo ho fatto condurre
intorno al campo, alla terra, al mio fondo
un verro, un agnello, un toro,
affinchè i morbi visibili e invisibili,
la sterilità e la devastazione,
le calamità e le intemperie
tu arresti, scacci, allontani,
e affinchè le messi, il frumento, le viti, i virgulti
tu lasci crescere e bene riuscire
e salvi mantenga pastori ed armenti,
e affinchè tu doni buona salute e prosperità
a me, alla casa e alla famiglia nostra.
Per queste cose,
dell’espiare e purificare
il fondo, la terra e il mio campo,
come ho detto, sii onorato con questo verro, agnello, toro
lattanti.
Marte padre, per tale dono benefico
sii dunque onorato
con questo verro, agnello, toro
lattanti.
Battaglia del Veseri ( presso il Vesuvio 340 a. C.)
Davanti al pontifex publicus populi romani, il Console Publio Decio Mure fece sacrificio della propria vita consacrando se stesso e l’esercito nemico agli dei Inferi e alla terra.
Indossata la toga pretesta, velato il capo, il mento sostenuto con la mano, in piedi, sopra una lancia stesa a terra.
Iane
Iuppiter
Mars Pater
Quirine
Bellona
Lari
dei Nuovi
dei Indigeni
dei che avete potere su di noi e sui nemici
dei Mani
Vi prego, vi domando una grazia
questa grazia vi chiedo e ottengo
che al popolo romano dei Quiriti diate forza e vittoria felice,
che ai nemici del popolo romano dei Quiriti diate terrore, sgomento, morte.
Come ho dichiarato con le mie parole
così per lo Stato del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito, le legioni,
gli alleati del popolo romano dei Quiriti
io consacro le legioni e gli alleati dei nemici
insieme con me stesso
agli dei Inferi e alla terra.