Il fuoco e le ceneri
Io ho provato quasi tutto. Conosciuto tutto. E, soprattutto, sofferto tutto.
Abbagliato, ho visto alzarsi i grandi fuochi dell’oro della mia giovinezza. Il loro incendio illuminava il mio paese. Le folle facevano danzare intorno a me ondate costellate da migliaia di volti. Il loro ardore, il loro vortice sono esistiti.
Ma, in effetti, essi sono esistiti realmente? Tutto questo non è stato un sogno? Non ho per caso sognato che quando non avevo ancora trent’anni in un determinato paese veniva fatto il mio nome, e che in certi giorni i più lontani giornali del pianeta lo ripetevano?
Ripiegato nelle mie tristezze di esule, arrivo a non credere più nemmeno al mio passato. Ho vissuto, oppure no, quei tempi? Conosciuto quelle passioni? Sollevato quegli oceani? Misuro a grandi passi le mie terrazze. Mi chino sulle rose. Ne distinguo minutamente i profumi. Sono stato mai un altro essere, diverso da questo sognatore fantastico e solitario che afferra invano i ricordi, disfatti come nebbie di montagna?
Tutto ciò fu solo un’allucinazione?
Più lontano, molto in lontananza, non vedo tra luci sbiadite che corpi alla Greco, sempre più assottigliati.
Questi individui che si dileguano per sempre dall’orizzonte mi hanno conosciuto? Mi hanno seguito? Li ho tratti a me? Io, sono esistito?
Nei miei ricordi come nelle mie mani, sento scivolar via solo vento fugace.
Gli occhi – e quali occhi devo mai avere: occhi della disperazione? – gli occhi invano scrutano il cielo impassibile, tentando di vedere negli sfondi degli anni, negli sfondi del secolo che cosa afferrare…L’essere che io sono, in che cosa è ancora l’essere che un tempo portava il mio nome, che era conosciuto, ascoltato? Per il quale sono vissuti e molti, ahimé, sono morti? Quell’essere, che cos’ha da vedere con l’uomo che percorre su e giù, amaramente, interminabilmente solo, alcuni metri di terra straniera, scavando nel proprio passato, perdendosi in esso, alla fine senza crederci più: domandandosi se è stato proprio lui a venir cento volte rovesciato nei tornados di un Destino implacabile, e se non esce per caso da un lungo tunnel di ghiaccio dove butto era solo illusione…
Allora, se io dubito della mia carne, delle mie ossa, di quel che ha formato un tempo il mio agire politico, se io dubito della realtà del mio passato e della parte che potuto avere in alcuni anni di edificazione della storia degli uomini, che cosa posso ancora credere riguardo agli ideali che nascevano in me, che io progettavo: riguardo al valore delle mie convinzioni di allora, dei sentimenti, di quel che io pensavo dell’umanità, di quel che io sognavo di fare per essa?
Ogni essere umano compone una successione di esseri umani, così diversi gli uni dagli altri come i passanti di cui noi scrutiamo per la strada i volti dissimili.
A cinquant’anni, in che cosa rassomigliamo ancora al giovane di vent’anni di cui tentiamo di ricordarci r di cui vogliamo, a tutti i costi, essere la sopravvivenza? Anche la sua carne non è più la stessa carne: se n’è andata, si è rifatta, rinnovata. Neanche un millimetro della sua pelle è la pelle di allora.
E l’anima dunque? E i nostri pensieri? E i sentimenti che ci movevano all’agire? E i sentimenti che, come aliti di fuoco, trapassavano il cuore?…
Egualmente, quanti uomini diversi rinserriamo dentro di noi: che si combattono, si contraddicono, o anche si ignorano? Noi siamo il bene e siamo il male, siamo l’abiezione e il sogno: siamo le due cose insieme, avviluppate in reti inestricabili. Ma il fatto atroce del destino non risiede in questo. Il fatto atroce consiste nel rompere quelle stesse reti per gettare a mare la propria anima; l’atroce risulta dal doversi dire che l’essenziale della nostra vita fu oggetto di caricatura, venne alterato da mille impurità e da mille rinnegamenti.
Chi non ha conosciuto questi crolli?…
Gli uni si rendono conto del loro fallimento, dolorosamente. Gli altri lo registrano cinicamente, o col sorriso scaltro di quelli o di quelle cui non la si dà a bere: convinti come sono che la conoscenza dell’uomo e la superiorità dello spirito consistono nell’aver attraversato tutte le “esperienze”, nell’aver deliberatamente svuotato i succhi più perversi, senza eccessiva sorpresa e senza eccessivo rimpianto – avendo trovato, mediante la pratica e la profanazione di tutto, l’informazione, la condiscendenza e l’equilibrio di una “etica” di decomposizione, sciolta da ogni vincolo di ordine spirituale.
Il mondo in cui viviamo è diventato veramente, per larga parte, un mondo di amorali, tanto sicuri di loro stessi?…Coloro che si ostinano a immaginare ancora una umanità che elevate virtù potrebbero abbellire, sono veramente esseri anacronistici, non evoluti, attaccati a vecchie fissazioni, che vivono fuori degli uomini, fuori del loro tempo, fuori della moda, fuori del reale?…
Io sono arrivato a questo punto. Avevo sognato un secolo di cavalieri, forti e nobili, dominatori di sé prima che dominatori di altri. Duro e puro dicevano le mie insegne. Mi ritrovo stordito col mio carico si sogni tramontati.
So che sentimenti come quelli che ho tentato di esprimere non vengono più sentiti, sembrano addirittura “penosi” a certuni.
Ma io ne ho viste tante, ho sofferto tanto che una amarezza di più, al punto in cui sono arrivato, non mi sposserà. Quindi, tanto peggio! Questi sogni, io li ho avuti veramente. Questi slanci, sì, io li ho provati. Questo amore per gli altri mi ha bruciato, mi ha consumato veramente. Ho voluto scorgere nell’uomo un cuore da amare, da entusiasmare, da elevare, un’anima che – pur mezza asfissiata dalla pestilenza delle schiavitù – aspirava a trovare un soffio di purezza e a volte attendeva solo una parola, uno sguardo per liberarsi e rinascere….
Siamo chiari. Diritto a esporre, per uso altrui, considerazioni morali o spirituali, io non ne ho affatto. Lo so fin troppo bene. Ho avuto la mia parte di miserie, ahimè, come tanti altri; e, anche se non le avessi subite, me ne hanno attribuite tante, che riesco a provare, analizzandomi, solo confusione e una tristezza infinita.
Tuttavia, le tensioni ideali che infiammano questo libro hanno divorato ogni giorno della mia esistenza. Certo, avrei dovuto lasciare ad altri, meno colpiti di me, la cura e la responsabilità di comporre veri canti umani inondati di luce. Ma questo fuoco mi infiamma.
Oggi, soffocato da una sorte implacabile, il grande incendio di un tempo ha lasciato solamente ceneri.
Malgrado tutto io vi ritorno con l’anima, ostinatamente, perché esse evocano i momenti di ardore della mia vita, le tensioni più profonde, il fondamento spirituale stesso del mio agire. Eccole dunque, per amore o per forza, abbandonate al vento che le disperderà rapidamente…
Questi pensieri, questi fantasticari non sono neanche ordinati. Non li ho conclusi in uno schema. E’ il colmo. Ma non mi sono messo a tavolino come uno scrittore qualificato e metodico. Non ho scritto un “Manuale dell’Idealista”, capitolo dopo capitolo, misurando tutto, dosando tutto.
No: niente di simile, niente di tutto ciò.
Che fare?
Le tensioni dell’anima non si graduano come il getto di un apparecchio a gas. La speranza, la passione, l’amore, la fede, il dolore, la vergogna, mi dettavano degli scritti che io in particolari momenti gettavo agli uomini, perché li sentivo allora con maggior intensità. A volte questo avveniva al culmine della mia attività politica. A volte nell’abbandono, nel fango, nel freddo della mia vita lontana di soldato, sofferente nelle immensità del fronte dell’Est. Ma l’anima che viveva queste tensioni seguiva un filo conduttore, invisibile a molti: esso era l’arteria che alimentava spiritualmente la mia esistenza.
Così queste note non sono poi tanto disorganiche: esse esprimono gli alti e i bassi di un’anima in mezzo ad altre anime, ognuna delle quali ha i propri alti e bassi.
Certo, lo spirito arrivato alla “saggezza” inalterabile del cinismo può dominare col sorriso i gelidi marmi del proprio cimitero interiore, e incidere su di essi i suoi rilievi con stile impassibile.
Ma il fuoco, invece, ha fiamme diverse: si alza, si abbassa, rinasce, si avventa. Questo libro è di fuoco, con le esaltazioni del fuoco, gli eccessi del fuoco.
Se almeno potesse averne il benefico calore! Se le anime potessero trovare vicino a lui conforto e vigore, come li si trova nel meditare alla sera, presso ad un gran fuoco di legna quasi silenzioso. Le vibrazioni della sua vita potente penetrano; e si irradiano; e si raccolgono. Esse si offrono completamente, si abbandonano totalmente. Il dono, il vero dono è così: l’annientarsi sino all’ultima favilla.
Qui, nel mio caso particolare, si tratta soltanto di un fuoco morto. La mia vita si è schiantata in abissi, è stata sommersa dalle onde di fondo che hanno ricoperto tutto.
Ma io voglio credere, malgrado tutto, che queste tensioni che animarono le azioni di un uomo già morto agli occhi della maggioranza degli uomini – pur quando egli ha la disgrazia di vivere ancora per sé – potranno ancora raggiungere spiritualmente qua e là, nel mondo, dei cuori ansiosi…
Mi ricordo tre parole che un giorno avevo decifrato su una tomba di marmo nero giù a Damme in Fiandra, dentro una chiesa della mia patria perduta: ETSI MORTUUS URIT.
“Seppur morto, egli arde…
Possano queste pagine, ultimo fuoco di quel che io fui, ardere ancora un momento, riscaldare ancora un istante le anime possedute dalla passione di donarsi e di credere: di credere malgrado tutto, malgrado la disinvoltura dei corrotti e dei cinici, malgrado il triste gusto amaro che ci lasciano nell’anima il ricordo delle nostre colpe, la coscienza della nostra miseria e l’immenso campo di rovine morali di un mondo che, sicuro di non avere più bisogno di salvezza, da questo trae motivi di gloria, ma deve lo stesso essere salvato. Deve più che mai essere salvato.
L’agonia del secolo
Amare? Perché? Perché amare?
L’essere umano si è barricato dietro il proprio egoismo e il proprio piacere. La virtù ha abbandonato il suo canto naturale. Ci si burla dei suoi vecchio riti. Le anime soffocano. Oppure esse sono state liquidate dietro lo schermo delle abitudini e delle convenzioni.
La felicità è divenuta, per l’uomo e per la donna, un mucchio di frutti che essi divorano in fretta e in cui affondano rapidamente i denti e basta, per poi ributtarli alla rinfusa – corpi rovinati, anime rovinate -, una volta esaurita la frenesia passeggera, in cerca già di altri frutti più eccitanti o più perversi.
L’aria è carica di tutti i rinnegamenti morali e spirituali. I polmoni aspirano invano a un alito di aria pura, alla franchezza di uno spruzzo di mare rasente la sabbia.
I giardini interiori dell’uomo hanno perduto i loro colori e i loro canti di uccelli. L’amore stesso, anch’esso non si dona più. Che cosa rimane ancora dell’amore, la più bella parola del mondo, avvilita al rango di passatempo fisico, istintivo e intercambiabile?
Pure, la sola felicità risiedeva nel dono, la sola felicità che consolava, che inebriava come il profumo intenso dei frutti e delle foglie d’autunno.
La felicità esiste solo nel dono, nel dono completo; il suo disinteresse gli conferisce sapori d’eternità; esso ritorna alle labbra dell’anima con una soavità immateriale.
Donare! Aver visto occhi che brillano per essere stati compresi, colpiti, appagati!
Donare! Sentire le grandi onde di felicità che fluttuano come acque danzanti su di un cuore pavesato all’improvviso di sole!
Donare ! Aver colto le fibre segrete che tessono i misteri della sensibilità!
Donare! Avere il gesto che consola, che toglie alla mano il suo peso di carne, che consuma il bisogno di essere amato!
Allora il cuore diventa leggero come il polline. Il suo piacere si inalza come il canto dell’usignolo, voce ardente che nutre le ombre. Noi brilliamo di gioia. Abbiamo vuotato questa potenza di felicità che non avevamo ricevuto per noi, che ci colmava, e noi dovevamo riversarla: così come la terra che non può contenere all’infinito la vita delle fonti e la lascia prorompere sotto i crochi e le giunchiglie, o nelle fenditure delle verdi rocce.
Ma oggi da mille fessure dissecate le fonti spirituali hanno cessato di sgorgare.La terra non riversa più questo dono che la rigonfiava. Essa trattiene la propria felicità. La soffoca.
Qui risiede l’agonia del nostro tempo.
Il secolo non sprofonda per mancanza di supporto materiale. L’universo non è mai stato così ricco, colmo di tanto benessere, grazie a una industrializzazione di tale efficacia produttiva.
Non vi sono state mai tante risorse, né tanti beni disponibili.
E’ il cuore dell’uomo, solo lui, a versare in stato fallimentare.
E’ per mancanza di amore, è per mancanza di fede e capacità di donarsi, che il mondo stesso si abbatte sotto i colpi che lo assassinano.
Il secolo ha voluto essere soltanto il secolo degli appetiti. Il suo orgoglio lo ha perduto. Ha creduto alla vittoria della materia finalmente assoggettata dal proprio spirito. Ha creduto alle macchine, agli stoks, ai lingotti sui quali avrebbe regnato sovrano. Egualmente, ha creduto alla vittoria delle passioni della carne spinte oltre ogni limite, alla liberazione delle forme più varie di godimento, moltiplicate senza posa, sempre più avvilite e avvilenti, fornite di una “tecnica” che in genere si rivela, solo alla fine, una accumulazione, senza grande immaginazione, di vizi tanto poveri da essere vuoti.
Dalle proprie conquiste, o più esattamente dai propri errori, e poi dalle proprie cadute, l’uomo ha tratto soltanto piaceri che gli apparivano sommamente eccitanti all’inizio, e che erano in effetti solo veleno, fango, oro falso.
Per quest’oro falso, questo fango, questo veleno, l’uomo e la donna avevano abbandonato e profanato, con i loro sogni e i loro corpi devastati, la gioia interiore, la gioia autentica, il grande sole della gioia autentica. Le vampate di piacere del possesso – materiale o carnale – dovevano, prima o poi, dissolversi perché illusorie, viziate sin dall’inizio, e viziose sempre più.
Al cuore dei temporanei vincitori di queste sterili aste è rimasta soltanto la passione di prendere, di prendere in fretta, vampate di ira che li spingono contro tutti gli ostacoli, aliti di odori dolciastri di decadenza appiccicati alla loro vita devastata e fradicia.
Frivoli, vuoti, con le mani penzoloni, essi non vedono neanche giungere il momento in cui l’opera fittizia del loro tempo sprofonderà.
Essa sprofonderà perché era contro le leggi stesse del cuore; e – diciamola, questa grande parola – contro le leggi di Dio. Lui solo, per quanto se ne sia riso, dava al mondo il suo equilibrio, orientava le passioni, apriva loro le chiuse del dono completo e dell’amore autentico, suggeriva un senso ai nostri giorni, quali pur fossero le nostre ore e le nostre sciagure.
Si potranno convocare tutte le Conferenze del mondo, ammassare a branchi i Capi di Stato, gli esperti economici e i campioni di tutte le tecniche. Essi pondereranno. Decreteranno. Ma, in sostanza, non riusciranno perché l’essenziale lo sfioreranno soltanto.
La malattia del secolo non risiede nel corpo.
Il corpo è malato perché l’anima è malata.
E’ questa che occorreva, che occorrerà – costi quel che costi – guarire e nuovamente vivificare.
In ciò consiste la vera, la grande rivoluzione da fare.
Rivoluzione spirituale.
O fallimento del secolo.
La salvezza del mondo risiede nella volontà delle anime che credono.
Vita retta
Coloro che esitano davanti allo sforzo sono coloro la cui anima è ottusa.
Un grande ideale dà sempre la forza di dominare il proprio corpo, di soffrire la fatica, la fame, il freddo.
Che importano le notti bianche, il lavoro opprimente, gli affanni o la povertà!
L’essenziale è avere in fondo al proprio cuore una grande forza che rianima e spinge avanti, che rinsalda i nervi, che fa pulsare a forti battiti il sangue stanco, che infonde negli occhi il fuoco ardente e conquistatore.
Allora più nulla dà sofferenza, il dolore stesso diviene gioia perché esso è un mezzo di più per elevare il suo dono, per purificare il suo sacrificio.
La felicità addormenta l’ideale. Niente lo risveglia meglio che la sferza della vita dura: essa ci permette di cogliere la profondità dei doveri da compiere, della missione di cui occorre essere degni.
Il resto non conta.
La salute non ha alcuna importanza.
Non si è sulla terra per mangiare in orario, dormire a tempo opportuno, vivere cent’anni od oltre.
Tutto questo è vano e sciocco.
Una sola cosa conta: avere una vita valida, affinare la propria anima, aver cura di essa in ogni momento, sorvegliarne le debolezze ed esaltarne le tensioni, servire gli altri, spargere attorno a sé felicità ed affetto, offrire il braccio al prossimo per elevarsi tutti aiutandosi l’un l’altro.
Compiuti questi doveri, che significato ha morire a trenta o a cento anni, sentir battere la frebbe nelle ore in cui la bestia umana urla allo stremo degli sforzi?
Che si rialzi ancora, malgrado tutto!
Essa è là per donare la sua forza sino al logoramento.
L’anima sola conta e deve dominare tutto il resto.
Breve o lunga, la vita vale soltanto se noi non avremo da vergognarcene nel momento in cui occorrerà renderla.
Quando la dolcezza dei giorni ci invita, e la gioia d’amare, la bellezza di un volto, di un corpo perfetto, di un cielo leggero, e il richiamo di corse lontane, quando siamo sul punto di cedere a labbra, a colori, alla luce, al torpore delle ore di distensione, serriamo dentro i nostri cuori tutti questi sogni fantastici al limite delle evasioni dorate…
L’evasione vera consiste nell’abbandonare queste care prede sensibili, nel momento stesso in cui il loro profumo invita i corpi a smarrirsi.
Nel momento in cui occorre reprimere gli elementi più delicati di sé stessi e portare il proprio amore al di là del cuore, proprio quando tutto è penoso sino all’inumano, allora un sacrificio comincia veramente ad essere compiuto, a essere puro.
Noi abbiamo superato noi stessi, noi doniamo finalmente qualcosa.
Prima, era ancora di noi che andavamo alla cerca – e di quella punta di orgoglio e di gloria che rende impuri tanti sentimenti sgorgati dalle nostre anime, e sfruttati anziché donati.
Ci si dona per davvero, disinteressatamente – perché tutto è messo da una parte e più nulla è rimasto dall’altra -, solo quando si è ucciso anzitutto l’amore di sé. Questo non avviene automaticamente perché la bestia umana è ostinata. E noi comprendiamo così male gli insegnamenti dell’amarezza…
E’ dolce sognare un ideale ed edificarlo nel pensiero.
Ma, a dire il vero, questo è ancora assai poco.
Che cos’è un ideale che rimane solo un gioco, anche se noi vi mettiamo un sogno davvero puro?
Dopo di questo, occorre edificarlo nell’esistenza.
E ciascuna pietra è cavata dai nostri piaceri, dalle nostre gioie, dai nostri sonni, dal nostro cuore.
Quando, nonostante tutto, l’edificio, sul finire degli anni, si eleva, quando non ci si ferma per strada, quando, dopo ogni pietra più pesante da drizzare, si va avanti, soltanto allora l’ideale si mette a vivere.
Esso vive man mano che noi moriamo a noi stessi.
Quanto è drammatica, in effetti, una vita retta…
La terra d’origine
Siamo uomini in quanto apparteniamo a un popolo, a un suolo, a un passato.
E’ possibile non saperlo, è possibile tentare di dimenticarlo. Ma gli avvenimenti provvedono presto a ricondurci alle fonti della vita.
Essi ci riconducono anzitutto agli uomini del nostro sangue: in maniera vergognosa o luminosa, la famiglia ci lega coi suoi vincoli, sempre più stretti e saldi coll’andare del tempo.
Talvolta essi scompaiono: di loro però non ci libereremo mai.
Che in gioco vi sia sangue, lo si intuisce. Le ragioni del sangue sopravanzano tutto. Si fa corpo con lui, come se le nostre vene non componessero un unico organismo e la famiglia non possedesse che un solo cuore: un cuore che proietta il medesimo sangue in ciascuno di noi e da ogni parte lo richiama al focolare vitale.
Lo stesso avviene per il paese.
Non vi si sfugge.
La vista della stampa ingiallita di una delle nostre cattedrali, il ricordo dell’odore delle dune, del colore grigio dei nostri colli, dell’ansa dei nostri fiumi, fa salire in gola un amore che ci soffoca tanto esso è commosso e pulsa.
Il passato del paese è scritto sin nel profondo della coscienza e della sensibilità nostra.
Tutto, per noi, è sopravvivenza, è rinascita – anche a nostra insaputa.
Il passato di un paese rinasce in ogni generazione, come la primavera ritorna, sempre, nelle nuove germinazioni.
Noi possiamo pur essere leggeri, correre il mondo, smarrire l’anima: il suolo natale infonde nei nostri cuori un fluido che non siamo noi a creare e che ci domina.
E basta la voce di una stazione radio captata in un paese lontano, recata da onde indistinte, perché ricordi, legami e leggi si liberino nuovamente, autentiche filigrane impresse in modo indelebile nella trama dei nostri giorni tormentosi.
Il cuore e le pietre
Occorre aver solcato i mari più lontani, aver conosciuto le rosse notti dei Tropici, i fuochi delle canne da zucchero, i canti dei negri, i deserti con le sabbie rosate, gli arbusti senza foglie, gli scheletri di cavalli scarniti dal vento, occorre aver risalito i laghi gelati e le nevi ardenti, colto mimose sulle rovine di Cartagine, pompelmi all’Avana, un filo d’erba vicino a una scanalatura dell’Acropoli – per amare pienamente un paese, quello che si vide per primo, con i soli occhi limpidi che esistono al mondo: gli occhi di fanciullo.
Occorre aver conosciuto altri viaggi, con mobili e suppellettili, libri, quadri, i propri semplici beni materiali, occorre essere stato il nomade di appartamenti anonimi, in cui ci si accomoda come in un treno – per conoscere la passione e la nostalgia del primo di tutti i paesaggi, di quella cornice del cuore che è la “casa”.
Noi possiamo evocare senza rimpianto le grandi gioie delle terre straniere.
Esse indorano ancora il nostro sguardo: il giorno che si leva giallo e argento sui palmizi lungo le coste del Mar delle Antille; le nebbie fumanti in mezzo agli ulivi della valletta di Delfi, pescatori che remano nella notte azzurro-chiara delle Cicladi; il palmeto zebrato dal sole vicino alle mura rosse di Marrakech.
Ma il ricordo dei viaggi erranti in quelle prigioni che sono le abitazioni senz’anima ci pesa e ci soffoca.
Che rimane, nella nostra vita, di questi scambi impersonali?
I muri a cui, distrattamente, si sono appesi e da cui si sono staccati i quadri? I rumori confusi dei telefoni? La scala sulla quale ci si incrocia senza conoscersi? Il “cellulare” dell’ascensore, con la sua doppia inferriata?…
Noi guardiamo questo scenario di vita e di morte con occhi velati, carichi di vera disperazione.
Che ci dicono questi muri divisori, questa cucina aperta su orribili cortili, lunghi pochi metri, senza un angolo non previsto, senza un capriccio, senza una fronda naturale e senza un nido?
Che ci dicono questi letti e questi mobili disposti alla meno peggio, a disagio, imbarazzati come se non si sentissero a casa propria, poveri, infelici e nomadi come noi?
Perché i mobili un’anima ce l’hanno.
Questa vecchia cassapanca che ingombra il corridoio, questa cassa d’orologio che non risuona più per non dar noia ad alcuno, un tempo hanno vissuto, un tempo hanno conosciuto una vera casa: per cento, duecento anni hanno avuto il loro posto, i loro fruscii, il loro odore. I loro sportelli battevano come ali. Le ore scoccavano come segnali.
Povera cassapanca e povero orologio, lontani dal pavimento di legno tirato a cera, dall’odore di lavanda, dall’acqua che veniva gettata sulla scala consunta, dalle voci vicine, dal saluto del sole entrato bruscamente dalla porta aperta…
Noi, i moderni spaesati, trascinati d’appartamento in appartamento nelle città dagli occhi vuoti, ci sentiamo strappare il cuore un po’ di più, ogni volta che dobbiamo varcare una nuova soglia, illuminare corridoi troppo bianchi, abituarci a maniglie, a imposte, a porte che non reggono, a gas che arde troppo in fretta, ad autobus che passano con un ululato brutale che spezza l’anima.
Si sta zitti.
Ma non si dimentica nulla.
E l’uomo, immobile come la vecchia cassapanca e il grande orologio, guarda e vede…
La casa natale ci ravviva i ricordi. Eccola. Poche fronde rischiarano la facciata. Due gradini di pietra azzurra. Un grande poggiolo di vite americana che dà sui giardini. Tutto è al proprio posto.
Tutto ha un senso, un odore, una forma corporea. Si va nell’armadio: l’armadio, parola magnifica, piena, grave, poiché esso contiene il pane e gli alimenti essenziali. Ad occhi chiusi sinpuò trovare ogni cosa. Quest’angolo sa di tabacco; quell’altro odora del gatto che ha sempre fatto le fusa nel posto più tiepido. Questo rumore è la seggiola della scrivania da cui papà si alza. Questo passo, con qualche sosta: è la mamma che annaffia i fiori della camera da pranzo. Queste camere non rappresentano delle “tappe”. E’ la camera “sopra-il-salotto”; è la camera “sopra-lo-studio”; è la camera “dei bambini” – anche quando essi sono diventati uomini dai pensieri gravi…
Ognuna di queste camere ha la propria storia, ha conosciuto le sue veglie, i suoi malati; da questa si è scesi una mattina portando in braccio un corpo amato…
Ah, l’orrore di quegli appartamenti anonimi in cui i nostri figli sono nati o sono morti davanti a scenari senza vita, in seguito abbandonati, in cui altri nomadi, a loro volta, hanno ripreso la loro vita a tappe: senza ricordi d’anima, senza nemmeno esser capaci di fissarli, perché non si saprebbe dove metterli…
Casa di un tempo, con i tuoi poveri “cretonnes”, il tuo cattivo gusto, quel pomo della ringhiera delle scale, le foto di bambini in fila indiana, il pesante pianoforte, il focolare nero, la bagnarola di stagno in cui si entrava uno dopo l’altro, quei passi di cui si ode il suono vent’anni più tardi swolo a ricordarsene, quei respiri che si sentono alitare di nuovo davanti a sé, il viso della mamma che si rianima in lontananza e che poi è là, davanti agli occhi – quasi impenetrabile e tale da renderti improvvisamente tanto bambino da voler essere accarezzato di nuovo…
Richiami di un affetto immenso affiorano, con profumi lontani di fiori e di fronde; canti d’acqua scorrono in fondo al giardino, con un tepore di sole diverso per ogni luogo del mondo.
Tutto deriva da quei tempi.
Sfortunati quei bambini che non avranno avuto una casa loro, e che non potranno raccogliere questi ricordi che compongono la vita.
E’ la casa che ci forma.
Come avremmo un’anima, noi, se la casa non ha alcun volto, se essa è soltanto una maschera che viene mutata in tutti i carnevali degli uomini?
La vita la si può fissare solo sui cuori e sulle pietre; il resto se ne va come le lunghe file di tronchi alla deriva sulle acque invernali.
Casa, fortezza e tenerezza…
Tutto, a poco a poco, assume un volto, man mano che arrivano le fatiche e i dolori comuni, e nascono i figli.
I muri hanno racchiuso gli amori e i sogni.
I mobili belli o brutti sono stati amici e testimoni.
Un profumo sale dolcemente da queste anime confuse, e un raccoglimento, una pace, una certezza – invece delle soste trafelate sui pianerottoli dell’esistenza.
Dolcezza, equilibrio, luoghi di rifugio, testimonianze, esami di sé stessi.
Senza la mamma e la casa, dimmi, anima mia, dove saremmo noi?
La carne che inizia
Gli uomini possono degradarsi, vivere un’agitazione sempre più frenetica, e milioni di corrotti diventare tronfi: la nobiltà della maternità conserva per migliaia di cuori semplici e vibranti il suo patetico splendore.
Essa commuovo oggi come al tempo in cui le prime donne sentirono il loro corpo agitato da indicibili sussulti.
Da quel momento non sono più le stesse.
Ieri esse correvano, l’occhio limpido, l’anima sgombra, le labbra distratte.
La vita che nasce in loro come una fioritura nascosta dà ad esse un’improvvisa gravità, una sicurezza, una grande forza superba, la certezza di creare, di donare, e il fascino commosso del mistero vivente che scaturirà un giorno dai loro dolori.
Esse appaiono ancora ridenti, ma il loro sguardo è più profondo.
Portano in sé un tesoro i cui palpiti si legano ai loro palpiti più intimi. Le tensioni, le malinconie, il nobile ideale, talora inconfessato, che le solleva e le tormenta, i pensieri e i rimpianti, le gioie e i desideri, si identificano con questa vita invisibile a tutti, presente in ogni istante a loro che le donano sangue e anima in una perfetta comunione di carne e di cuore.
Esse sono forti e stanche.
Stanche del corpo che si piega, stanche della loro giovinezza curvata come rami troppo carichi di frutti, stanche di sole e di vento.
Ma rigogliose per la nuova vita che il loro seno contiene amorevolmente, in quella carne che le loro più delicate vibrazioni modellano.
Esse sanno che quest’anima-fiore, dischiusasi nella notte, sarà domani freschezza, innocenza, se il loro cuore che le ammanta come il cielo notturno è pieno della dolcezza e della pace delle notti in cui tutto è soltanto stelle e silenzio.
In mezzo al mondo rumoroso esse portano questa notte di luce.
I loro occhi sognanti contemplano quei vasti paesaggi lunari in cui un mondo da loro sole conosciuto dorme possente e immenso.
Esse rimirano queste montagne azzurre, queste acque nere e lisce, questo incanto del cielo trapunto di fuochi incastonati – come pietre inaccessibili – nell’ambra nera delle sere.
Nel loro incedere sotto queste trasparenze notturne, il cuore è triste, ma il passo sicuro. Nessun altro viene avanti. L’universo è distratto. Esse sole vegliano. Esse soltanto hanno gli occhi della carne. Avanzano, col corpo pesante, l’anima tesa, elevata, come aspirata dalla grandezza delle notti segrete.
Questi mesi in cui la carne fiorisce costituiscono la loro primavera esclusiva, quando le ombre e i profumi, i colori e le luci colgono solo il loro grande amore, teso a braccia aperte alla vita come un giardino del cuore.
Esse conosceranno la liberazione delle albe carnali e il distacco dal sogno, poi gli sforzi costanti, chine su quei corpi e quelle anime che le incantano e fanno loro paura.
Regalità tremante e radiosa.
Che cosa riprenderà vita in questi cuori?
Conserveranno il canto e la verginità delle acque montane?
Questi occhi puri faranno un giorno piangere? Questa testolina ricciuta, dal color del sole sul muro di pietra, conterrà i pensieri limpidi, l’ideale di cui la madre ha sognato, come di gladioli ardenti?
Per non aver troppa paura, sarà meglio che essa stessa tracci la via rettilinea, ma costeggiata di verde e di legno fresco, al di sopra della quale viaggiano i candori che rendono levigati i cammini dalla terra al cielo.
La mamma porrà nel cuore dei piccoli, ancora una volta, soltanto quel che avrà nutrito in sé stessa.
La loro anima conterrà quel che la sua ha contenuto.
Le immagini del suo cuore si rifletteranno sul loro: come le ombre che noi vediamo avanzare sui campi, sotto le nubi bianche dei grandi cieli distesi e tiepidi.
Essa potrà sostenere il loro sguardo soltanto se la sua anima sarà altrettanto pura.
Tutto ciò che non è frescco e puro desta sorpresa nei fanciulli e smarrimento nel cuore.
In seguito, essi non saranno più forza e rinunzia, saggezza e semplicità, virtù e gioia, se il nutrimento dello spirito non è stato puro come lo era il latte materno.
I volti delle madri sono nobili, sovranamente limpidi, allorché la purezza delle vite volontariamente innocenti le ha rinfrescate ai mille mattini dei sacrifici.
Donne privilegiate, la cui carne trasale, volte verso il sogno interiore in cui dimora ed arde il grande segreto della vita che inizia…
La vocazione alla felicità
Più si avanza tra i sorrisi ipocriti, gli occhi cupidi, o sudici, le mani interessate, i corpi sciupati – più si rimane delusi a causa della mediocrità dell’esistenza.
Ci si accorge presto che rimangono stabili ed eterne solo le gioie infuse nei nostri cuori quando eravamo piccoli.
E’ allora che esse ci rendono felici o infelici per sempre.
Se abbiamo avuto un’infanzia serena, dolce come un gran cielo dorato, se abbiamo imparato ad amare e a donarci, se abbiamo goduto, già da piccoli, dell’incanto che ad ogni istante ci davano il cielo e la luce, la natura sempre accessibile e sempre mutevole, se ci siamo formati un cuore semplice come lo sguardo degli animali, puro come il mattino, umano, sensibile, buono, legato agli affetti veri e naturali, la vita rimarrà per noi, sino al termine di cammini sassosi e fangosi, simile al cielo che domina – potente e limpido – i pantani delle strade peggiori.
Esiste una vocazione alla felicità.
La si sviluppa o la si soffoca.
Se vengono indirizzati, in semplicità, verso gioie profonde ma elementari, i fanciulli procederanno nell’esistenza conservando negli occhi la luce della loro vita interiore, equilibrata, senza sbandamenti.
Ma se la loro infanzia viene distorta, se hanno visto e ascoltato troppo, se sono stati presi in un turbine, se anni di sicuro affetto non hanno fortificato in loro la fragile felicità dell’innocenza, allora la vita sarà come è stata l’infanzia: invece di vedere il disordine saranno essi stessi il disordine.
Non essendo mai stati ancorati a gusti, sentimenti, pensieri stabili, rimarranno in balìa delle burrasche, delle gioie torbide che li bruceranno, creando infelicità a spese di altri.
Dopo, è difficile cambiare.
Non si raddrizza un albero dalla corteccia ormai dura: si può al massimo, a questo punto, sfrondarlo o potarlo.
Ma quando era giovane, pieno di linfa, lo si sarebbe potuto piegare con agile mano, drizzarlo, aiutarlo a crescere.
E nel momento in cui i fanciulli hanno l’aria soltanto di giocare, di guardare nient’altro che un passero o un’allodola, di sillabare parole o di dare baci, essi invece fotografano nel cuore, nell’immaginazione, lo spettacolo preciso che noi offriamo loro.
La vita non farà che sviluppare la fotografia; gli acidi dell’esistenza fisseranno nei fanciulli le immagini belle e potenti, o fosche e rattristanti, che noi avremo offerto ai loro piccoli occhi curiosi, al loro cuore pulito come un foglio di carta lucida.
Ciò di cui il nostro orgoglio, o la nostra agitazione, o – ahimé – le nostre passioni li avranno privati, noi lo sconteremo duramente più tardi, vedendoli instabili, insoddisfatti, con l’anima fiacca, o sconvolta per colpa nostra.
Il tempo di Natale
Eravamo solo dei fanciulli delle Ardenne.
La neve chiudeva l’orizzonte, incappucciava i colmi dei tetti e aderiva a strati sempre più spessi sotto i nostri zoccoli.
Eravamo sicuri di aver visto Sa Giuseppe voltare all’angolo di Rue du Molin. A mezzanotte, la salita della chiesa era difficile da farsi. Ci era stato permesso di tenere in mano i nostri zoccoli per l’ultima rapida scorciatoia. Poi, eravamo passati bruscamente dalla notte, con le guglie ghiacciate, all’odore caldo delle navate splendenti.
Ci girava un po’ la testa.
L’incenso ci ubriacava.
Il Decano stesso era pallido.
Ma il coro faceva un chiasso da allontanare i cinghiali a dieci chilometri dai nostri grandi e folti boschi.
Il tiramantice dell’organo pedalava come se temesse di arrivare in ritardo.
Il maestro trascinava il coro in vortici di voci.
Al momento del “E’ mezzanotte Cristiani”, la emozione e il clamore erano tali che noi ci eravamo arrampicati sulla paglia delle seggiole in attesa che, improvvisamente, gli angeli scendessero volteggiando sopra il coro.
Ma gli angeli avevano continuato, saggiamente, a restare in mezzo alle candele, con le loro grandi ali immobili.
Ci eravamo accostati a loro, con una monetina da due soldi nei guantoni di lana. Ci eravamo messi in ginocchio sul marmo. Il bue bruno e l’asino grigio si trovavano vicini vicini a noi. E noi bruciavamo dal desiderio di toccarli, per vedere se il loro pelo fremesse come alla fontana.
Ma i fanciulli amano i fanciulli ancor più delle bestie. Gesù era steso sulla paglia. I nostri cuori si intenerivano al pensiero che egli doveva avere tanto freddo. Nessuno gli aveva dato calzettoni come a noi. Né zoccoli. Né sciarpa per riparare il naso. Né guanti di lana verde per coprire le screpolature.
Guardavamo un po’ stupiti papà San Giuseppe che non faceva nulla per distinguersi e la Mamma azzurra e bianca, tanto immobile e così bella…
Noi conoscevamo mamme belle con occhi puri in cui si poteva vedere tutto. Avevamo tanto guardato quegli occhi… Ma quelli della Mamma di Gesù Bambino ci incantavano completamente, come se il cielo facesse vedere ai fanciulli più di quel che vedono gli uomini.
Non dicevamo nulla ridiscendendo il pendio.
Quando i bambini non dicono nulla, ciò significa che essi hanno tante cose da dire…
Il cioccolato fumante, la tavola grande coperta di dolci fatti in casa, non sono mai riusciti, al ritorno, a strapparci dagli invisibili conversari che si erano stretti tra i figli di mamme umane e il figlioletto della Mamma del Cielo.
Sopra il piano, un altro presepio era stato allestito, ove noi potevamo, ritti sullo sgabello, prendere in mano il bue e l’asino.
Ogni sera si accendevano tante candeline rosa e azzurre. Ognuna aveva la sua, sulla quale, alla fine della preghiera, dava un gran soffio. Dietro, nell’ombra, in ginocchio accanto a una seggiola, la mamma dirigeva i nostri slanci religiosi, ci guidava.
Quando tutto era finito, quando ci volgevamo verso di lei per ottenere il permessso di spegnere le nostre graziose luminarie, vedevamo nei suoi occhi brillare tanto fervore… Il Paradiso scende nel cuore dei fanciulli quando è la mamma a portarlo…
In quell’istante, umile e commovente, la mamma sapeva che delle piccole anime erano state segnate per sempre; che avrebbero potuto soffiare sulle candeline accese nei nostri cuori accanto al presepio, ma che non le avrebbero mai spente.
E ogni inverno, quando torna Natale, le fiammelle accese dalle nostre madri risalgono ben dritte e crepitano.
I ciechi
Il denaro, gli onori, i corpi sciupati, l’avidità nel carpire una felicità terrena che sfugge di mano e sempre si sottrae, hanno reso il gregge umano un’orda miserabile, che si avventa, si sbrana, per trovare liberazioni inesistenti.
Calca, dove le risa suonano false, per ricordarci che non si tratta di branchi di animali ma di uomini.
Questo scalpiccio di dannati ha colpito prima gli individui e poi i popoli.
Non si tratta più di un girotondo di isolati, morsi dalle passioni e dai vizi. Sono le collettività a venir aspirate dal vortice dei desideri impossibili: desiderio di possedere – cioè di prendere -, desiderio di essere il primo – cioè di colpire -, desiderio di fondare la propria potenza sulla materia – cioè di soffocare ed eliminare lo spirituale, mediante sforzi tanto più inutili, in quanto l’umano si scioglie nella stretta e lo spirituale sempre risorge, come un rimprovero, o come una maledizione.
L’abiezione ha superato le cerchie elevate delle “élites”, per guadagnare le vaste cerchie delle masse, raggiunte – anch’esse, questa volta – dalle onde propagate all’infinito dall’invidia, dall’ambizione, dagli pseudo-piaceri che sono soltanto caricature della gioia.
L’acqua limpida dei cuori si è intorbidita sino agli strati più profondi.
Il fiume degli uomini trasporta un diffuso odore di fango.
Il disordine del secolo ha sconvolto tutto quel che un tempo era luce e voli a tuffo di rondini nei canneti.
Gli uomini e i popoli si guardano dall’alto in basso, l’occhio violento, le mani segnate da marchi infamanti e dai morsi che hanno lasciato le prede ardenti rapidamente invilite.
Ogni giorno il mondo è più egoista e più brutale.
Ci si odia tra uomini, tra classi, tra popoli, perché tutti si accaniscono nella ricerca dei beni materiali il cui possesso furtivo rivela il nulla.
Ma tutti rinunciano ai beni – alla portata di ciascuno – dell’universo morale e dell’eternità spirituale.
Corriamo smarriti, la fronte insanguinata dall’aver cozzato contro tutti gli ostacoli, per strade di odio, o di abiezione, o di follia, urlando le nostre passioni, avventandoci contro tutti, per essere i soli ad afferrare quello che tuttavia non sarà mai afferrato.
Le linee del dolore
Non vi è cuore, per così dire, che non sia stato imbrattato da oltraggi, da atti sordidi, da colpe infamanti che lasciano guizzare nello sguardo espressioni fugaci che non ingannano.
Anche i cuori restituiti dai pantani alla purificazione mantengono sempre un sapore amaro di imperfetto e di ceneri.
Si è riusciti ad aggiustare la porcellana preziosa: ma chi ha conosciuto la caduta riconosce sempre le linee di rottura – per quanto esse siano finemente aggiustate. Sa che non tornerà più l’unità invisibile del perfetto, quella che egli pensava non potesse morire mai.
Più ci si inoltra nella vita, più il cuore è segnato da queste linee di dolore, impercettibili da tutti coloro che non hanno visto né conosciuto, ma strazianti per tutto ciò che contengono di delicatezza spezzata, come fini sete che si sono rotte con stridore.
Felici tuttavia coloro che vengono purificati da invisibili sofferenze!
Quanti altri, usciti alla meglio dal vizio, si sforzano di convincersi che quella degradazione fu utile, penetrati per sempre da questa tunica bruciante che si è raffreddata sulla loro pelle e vi si incolla, diventando carne come la carne corrotta, confusa ormai con questa.
Quali occhi guardare senza tremare?
Che nascondono essi?
Chi non è stato vile un giorno, chi non reca in sé parole, gesti, desideri, abdicazioni inconfessabili, o il cadavere mummificato della propria vita interiore?
Quanti uomini, quante donne non celano al riparo dalle convenzioni il fallimento della loro sensibilità, dei loro giuramenti e la miserabile profanazione dei loro corpi? Con rimorsi, a volte; senza rimorsi, il più delle volte. O piuttosto, anche con una piccola aria di trionfo e d’insolente provocazione.
Le cadute finali, quelle che hanno liquidato tutto – decenza, pudore, rispetto di sé, del proprio corpo, della propria parola, e Dio col resto – sono solo il risultato di centinaia di piccoli rinnegamenti preliminari, all’inizio negati o celati.
L’insieme precipita solo allorché le innumerevoli fibre del cuore sono state tagliate, le une dopo le altre, in mezzo ai sotterfugi, alle cattive ragioni, seguite da molteplici rinunzie sempre più irrimediabili, con la coscienza assassinata, al termine degli sfaceli…
Il decadimento scaturisce segretamente nel pensiero, prima di diffondersi in tutto l’essere.
Il corpo cede, si lascia macchiare, invischiare, insudiciare a morte solo parecchio tempo dopo che l’anima, incurante o inebriata da torbidi richiami, abbia abbandonato alla corrente i rami che segnavano, all’inizio, i retti cammini sulle acque pure.
I Santi
I Santi, intelligenti e non, ma con una illimitata virtù donatrice, quelli che giudicano da un livello così elevato i decaduti e i corrotti, i Santi ci dimostrano che la perfezione è accessibile a tutti.
Anch’essi furono semplici uomini, semplici donne, carichi di passioni, debolezze e sovente di colpe.
Anch’essi, talvolta, han dovuto stancarsi, cedere, dirsi che non sarebbero mai arrivati a scrollarsi di dosso quell’odore di fango e di peccato che ci accompagna.
Eppure non hanno rinunciato.
Ad ogni caduta si sono rialzati, decisi ad essere tanto più vigili quanto più si sentivano deboli.
La virtù non è un abbigliamento improvviso, ma una lenta, dura e a volte assai penosa conquista.
Essi hanno provato la gioia sovrumana di sentirsi alla fine vincitori del proprio corpo e del proprio pensiero.
La loro lotta ci dice che la felicità, sulla terra e nell’al di là, rimane alla portata di ognuno.
Ognuno possiede una volontà per servirsene.
Prima del corpo, è lo spirito che vince o che capitola. E anche quando il corpo ha ceduto, lo spirito può farlo risorgere, o lasciarlo corrompere ancor più, quindi avvelenarsi per sempre.
Siamo noi i padroni di noi stessi. Possiamo ugualmente sprofondarci negli abissi, o rasentarli, o risalirli, e superarli.
Ogni cosa può essere evitata e ogni cosa può essere compiuta.
L’eterna crocifissione
Di fronte alle sprezzanti ironie dei gaudenti e degli scettici, si osa appena ricordare che, dopo duemila anni, il maggiore dei drammi umani, quello della Passione, si ripete spiritualmente ogni primavera.
Chi soffrirà, chi si troverà là accanto al Calvario in questi nuovi giorni di agonia?
La Croce si erge nel deserto del tempo.
La vita banale o equivoca o perversa degli uomini continuerà a scorrere come un lento fiume.
Ilo Cristo riceverà le percosse e le spine. Egli crollerà a terra. Il legno della sua croce gli schiaccerà la carne. Lo si inchioderà a gran colpi di martello al duro legno. Hanno trafitto le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa.
Che ne saprà il mondo?
Il sangue discenderà lentamente sul suo corpo illividito. Gli occhi cercheranno al contempo il padre e le nostre anime.
Che avranno compreso, le nostre anime, di questa tragedia?
Non avranno né fremiti, né pianti.
Non avranno nemmeno pensieri.
Neanche sguardi.
Il Cristo muore veramente solo. Tutto solo.
Le anime dormono, o sono sterili, o hanno commesso suicidio, mentre questo corpo, proprio per trarle dal torpore, dal fango, dalla morte, sta sospeso nel dolore tra cielo e terra.
L’angoscia di questo cuore lancia invano grida di disperazione, che dovrebbero agghiacciare il mondo e fermare il respiro degli uomini.
E’ appunto a causa del suo soffocamento spirituale che il mondo decade.
E’ di speranza, di carità, di giustizia, di umiltà che il mondo ha bisogno per ritrovare un po’ d’aria.
Questa vita spirituale, noi l’abbiamo ricevuta in consegna.
Noi ne siamo i portatori.
E le nostre mani stanno penzoloni. I nostri occhi sono asciutti. E le nostre labbra non tremano di fervore e di emozione.
I nostri cuori sono simili alla sabbia arida.
Le nostre anime sono al punto morto o sono già morte.
La fede ha valore solo quando conquista; l’amore, quando arde; la carità quando è di salvamento.
Nessuno
Una palma oscilla. La sabbia scorre via tra le dita abbronzate di un fanciullo. Agnellini segnati di sangue cozzano la fronte con piccoli colpi ostinati. Asini minuscoli, dall’occhio liquido, caracollano giù dalle colline. Il paesaggio di Pasqua è limpido, splendente. L’aria è ancora fresca. Alcune margherite sono sparse lungo il pendio.
Perché il Cristo soffre nuovamente la più angosciosa delle agonie, in questi giorni in cui fasci di mimose illuminano le curve delle strade?
Queste strade, chiare e tiepide, lo riconducono ogni anno, dolente e muto, verso i chiodi e le spine, verso il sangue e gli sputi.
Signore, noi vi seguiamo in questo corteo polveroso, mischiati a quei peccatori rudi e fiacchi che vi amavano, ma che vi amavano come noi: con moderazione, come se la moderazione non fosse un insulto al vostro amore.
Noi siamo vicini a loro, non più cattivi di altri, con l’occhio talvolta raggiante per la gioia di servirvi. Allontaniamo gli intrusi, agitiamo le palme, crediamo di essere vicinissimi al vostro cuore: tutto questo ci dà un’opinione eccessivamente buona di noi stessi.
Nei vostri occhi tristi è riflessa la nostra vanità.
E nell’ora dell’agonia, poiché il nostro anello di amore era soltanto un filo, rimarremo lontani dalle vostre ferite, dai vostri sudori di sangue: da quel possente grido agghiacciante che trafiggerà la terra.
Signore, noi ritorniamo vicino ai vostri piedi bluastri. Stringiamo il legno della croce tra le nostre braccia tremanti.
Come osare alzare gli occhi verso la vostra testa insanguinata?
Non osiamo far altro che tendervi i nostri cuori disperati.
Sarebbe stato così dolce offrirvi la nostra anima in uno slancio totale, stare con voi dal Giardino degli Ulivi sino a quell’altura su cui voi rimanete inerte nel vento della sera. Noi non abbiamo avuto neanche la sorte del Buon Ladrone, di colui che per ultimo vi amò, che vi lanciò quello sguardo smarrito che penetrava il cielo…
Noi sentiamo lo scoramento delle nostre debolezze, dei nostri cedimenti, della nostra tiepidezza.
Signore, voi ci portavate l’essenziale e l’eterno, il pane e la bevanda, il soffio e il sole. Voi amavate i nostri cuori, ci davate forza. Avremmo dovuto esultare leggeri, il cuore festoso, liberati per sempre da ogni legame, da ogni rimpianto, da ogni altra speranza. Siamo rimasti pavidi nell’ombra di una porta o sotto un ulivo rilucente. Voi passavate oppresso e carico d’insulti. Ah!, Dio mio! In quei momenti di dolore e di salvezza, noi non abbiamo saputo amare.
Nell’ora del dono totale i nostri cuori erano senza vita.
Mio Dio, voi siete là, abbandonato da tutti, muto e triste, le membra irrigidite.
Non vi è stato nessuno, nessuno.
Noi abbracciamo il legno della morte e, senza rialzare il capo, lasciamo cadere ai vostri piedi la disfatta dei nostri cuori…
Voi tornerete alla luce, Signore. In quell’ora, abbiate pietà delle anime distrutte! Abbiate pietà delle anime vuote!
Soffriamo tanto nel sentirci così meschini e vili, così pieni di noi stessi, preoccupati dei nostri egoismi, delle nostre ambizioni, delle nostre vanità…
Vi abbiamo lasciato soffrire, abbiamo visto sgorgare il vostro sangue, piantare la vostra croce, spegnersi il vostro volto. Quando mai oseremo guardare le vostre piaghe aperte e i vostri occhi stanchi?
Signore, l’ora è vicina, la vostra luce sta per risplendere improvvisamente sulla collina. Noi ci troveremo là, nonostante tutto: vergognosi e tristi. Date ardore ai nostri cuori con la vostra sfolgorante dolcezza, dateci il calore e la purezza di quel fuoco divino da cui voi scaturite.
Noi siamo prostrati al limitare del vostro sepolcro.
Signore, fate sprizzare nelle nostre anime vinte la scintilla della ressurrezione!
Aver mal amato
Nel cielo gelido, di pallido oro, frullava un’allodola.
A che pensava là in alto?
Essa vibrava, emetteva stridii acuti, cedeva all’ebbrezza in ogni istante, tenendosi al cielo con un battito d’ali fugace come un lampo.
Essa amava per amare, sino al momento in cui, spossata, sfinita di felicità, precipitava come un ciottolo entro un solco.
Anche l’anima sale rapidamente.
Grida d’amore. Resta sospesa nella mistica immensità solo per il prodigio di ali invisibili che la sostengono.
Non sa nemmeno che può cadere, che la terra sta sotto di lei: è là, staccata da tutto, vita fremente, palpitante, quasi aspirata!
Anche l’allodola, ebbra di piacere giù nella terra calda, deve, anch’essa, provare questa grande gioia dell’amore soddisfatto. L’anima è palpitante. Ma tutto quest’amore ritorna ancora ad ondate nell’essere estenuato dallo sforzo, dal donare, dalla gioia.
Il grande dramma del peccato, quello che fa tanto soffrire, sta nel fatto che per causa sua ormai si donerà di meno, o si donerà male, potendo offrire solo i resti, i resti guastati di lordura indelebile.
Ora, amare significa donare, e donare significa donare tutto.
La punizione della colpa è il dolore di aver calpestato il proprio amore, di aver ridotto le possibilità future di ben-amare.
Si vorrebbe allora lacerare il proprio corpo, le mani, gli occhi, le forze che vibrano nelle ore di debolezza, di abiezione.
Troppo tardi: si è mal-amato.
Si vorrebbe piangere tutte le lacrime. Ma, nonostante tutti i tentativi, non si riprenderà più quel che è stato sciupato. Il giorno della caduta, malgrado il pentimento e la remissione, rimarrà la nera buca nella quale beni ineffabili sprofondarono per sempre.
Si potrà amare, in seguito, tanto ardentemente quanto si vorrà, ma non si ricreerà mai la purezza scomparsa, né la parte più bella dell’amore che rimase allora distrutta. Quest’amore sarebbe potuto crescere di più.
Quel che si tenterà ancora di offrire nell’ora in cui sorgerà l’Amore vero recherà, qualsiasi cosa si faccia, il terribile marchio.
Per questo motivo, l’aver profanato il dono di sé fa soffrire sino al termine della vita il cuore che ha sete dell’Assoluto.
Si vorrebbe essere Dio stesso per riavere quel giorno e quei momenti, restituire ad essi la freschezza dell’alba e custodirli trepidanti sul nostro cuore sino a notte…
A partire dal primo strappo, noi sappiamo che non ameremo mai più tanto quanto avremmo potuto. Ed è questo a rendere così straziante – perché privo di soluzione umana – il pentimento.
Quando si è conosciuto questo dolore dell’irreparabile, si vorrebbe oltrepassare le possibilità del proprio cuore, affinché qualche stella d’amore, strappata alle sommità più elevate, riesca a compensare ciò che cadde nella palude e nell’ombra.
Senza dubbio, proprio questo dà il bacio dell’agonia: la pace, la pace che pone fine ai rimpianti, alla disperazione di avere mal-amato, di avere troppo poco amato, o di avere imbrattato e profanato l’amore che pure all’inizio avevamo sognato di donare col cuore fervido e col corpo fresco, e che lasciammo invece rotolare nel fango degli abissi.
Forti e duri
Il sole è calato. Nello spazio di mezz’ora sarà buio. Gli uccelli lo annunciano, mentre cantano appassionatamente nei giardini.
Dovunque vi sono rose, talmente empite di luce che stanno per morire.
Il bosco, intorno a qualche tetto di tegole, già dorme.
E sempre gli uccelli ricominciano a lanciare i loro gridi acuti e le loro implorazioni, certo per i due innamorati seduti laggiù, sognanti, con un cappello bianco immenso sulle ginocchia…
Chi vive ancora, a parte questi uccelli, quel cane che abbaia in capo al mondo, e questi due cuori che battono nella quiete della sera, carica delle vibrazioni di giugno?
Come credere all’odio? Gli uomini allora non hanno mai guardato le ultime rose spegnersi nel silenzio lieve di una sera?
Occorrerà strapparsi subito da questo vasto mare campestre.
Occorrerà, alla fine dei sentieri, riprendere la strada su cui le ruote mordono il suolo con un crepitìo di pioggia tenace.
Vi saranno luci brutali, volti vuoti, occhi senz’anima.
Questo paesaggio è tanto chiaro, di sera: esso si concede con un dono così totale! Le rose morenti, la macchia di alberi, la distesa d’avena degli ondeggiamenti grigi, gli abeti gravi: sono così puri e semplici che un’infanzia intera riaffiora nel nostro essere, vicino a questa infanzia eterna di erbe, di alberi e di fiori.
Ora non si ode più nulla.
La notte accarezza le rose.
Gli alberi disegnano la sagoma nera nei chiarori morenti.
L’ultimo uccello che continua a cantare si arresta anch’esso, di tanto in tanto, quasi per ascoltare il silenzio. I due innamorati sono scomparsi, le mani tremanti, il vento lieve nei capelli.
Dovrò ben alzarmi.
Procederò con lentezza, senza disturbare le fronde e la vita immensa che si insinua attraverso l’oscurità. Indovinerò i contorni delle cose. Sentirò già fiorire in cima alle erbe la rugiada che domani rinfrescherà il sole, quando avrà asceso la sommità del bosco.
Dov’è la notte dei cuori da cui sorgerà il delicato mattino?
Occorrerà riannodare le nostre melanconie, riprendere il nostro passo di uomini dei campi e dei boschi perduti in mezzo a cuori sterili.
Chi comprenderà subito, nei chiarori brutali dinanzi ai nostri occhi tremanti, che abbiamo appena lasciato le foreste e le spighe, l’ombra e il silenzio?
Ma perché commuoversi? Alla fine dei sentieri, ci attende al varco la vita crudele che tutto addenta, con morsi famelici. Non guardiamo più, non pensiamo più, non respiriamo più quest’aria carica dei profumi di morte passeggera…
Spegniamo tutto. Lasciamo la notte consumare i cuori.
Domani, allorché il giorno raggiungerà la cima degli alberi, avremo di fronte a noi solo i chiusi orizzonti degli uomini.
Dovremo essere forti e duri, gioiosi attraverso tutto il sole della nostra anima.
Sera che stai morendo, così muta e così certa dell’alba, donaci la pace delle luci che risorgono dopo l’immenso rinascere delle notti propiziatrici…
Il valore della vita
Occorre pensare continuamente al valore della vita.
Questa è lo strumento ammirevole postoci nelle mani per forgiare la nostra volontà, elevare la coscienza, edificare un’opera di intelletto e di cuore.
La vita non è una forma di tristezza, ma la gioia fatta carne.
Gioia di essere utile.
Gioia di domare quel che potrebbe macchiarci o sminuirci.
Gioia di agire o donarci.
Gioia di amare tutto quel che vibra, spirito e materia, perché tutto, sotto l’impulso di una vita retta, elevata, alleggerisce, anziché pesare.
Occorre amare la vita.
Talvolta, nelle ore di stanchezza e di disgusto, si sta quasi per dubitare di essa.
Occorre ritornare padroni di sé, rettificarsi.
Troppi uomini sono vili? Ma, accanto a coloro la cui viltà è una bestemmia alla vita, vi sono tutti coloro – li si scorga o meno – i quali salvano il mondo e l’onore del vivere.
Spoliazione
La felicità “non si sa perché” non è lusinghiera.
E’ una specie di felicità strettamente vegetativa.
L’intelligenza non vi ha alcuna parte, e nemmeno il cuore.
La vera felicità, la felicità degna dell’uomo, quella che eleva, è la felicità garantita dello spirito, quella che è sorta dalla spoliazione dell’anima, dalla rinuncia dell’anima, nella piena consapevolezza dei piaceri umani, offerti o negati dalle circostanze.
Felice chi non è schiavo delle circostanze, che sa tanto godere del piacere esteriore quanto farne a meno.
Finché si soffre di una privazione di questo ordine, finché si soffre paragonando la propria sorte a quella degli altri, non si è né felici né liberi.
Rimanere in uno stato costante dell’anima, in una specie di distacco dell’anima quando l’universo esterno si rivela soltanto un immenso vuoto, vivere intensamente in questa “assenza materiale”, sentirsi – senza rimpianti – padroni dei propri desideri, averli sottomessi alla piena dominazione dello spirito – questo segna la vittoria dell’uomo, la vera, la sola, rispetto alla quale le conquiste davanti a cui già in anticipo capitolano, pronti a venir meno, rappresentano solo caricature di potenza. Ogni confronto pare ridicolo, di fronte alla liberazione suscitata dal dominio dello spirito sui beni, i bisogni e le schiavitù.
Noi ci sentiamo l’anima sciolta dalle vecchie catene rugginose che ci vincolavano ferreamente a mediocri conformismi.
Stringiamo nelle nostre mani il Destino, il Destino apertamente scoperto nella sua nudità liberatrice.
La felicità può nascere dappertutto. Essa non è fuori, ma dentro ciascuno di noi, con le sue possibilità più complete.
Potenza della gioia
Vi sono tanti elementi in grado di rendere felici.
Anche nel sentirsi liberi e forti di fronte ai propri desideri si è felici.
La gioia di vivere, già da sola, è tanto potente!
Gioia di avere un cuore che irradia!
Gioia di avere un corpo robusto, braccia e gambe forti come alberi, polmoni che aspirano la vita dell’aria!
Gioia di avere occhi che colgono nelle morbide curve forme e colori!
Gioia di pensare, di trascorrere ore a tracciare le grandi linee diritte bdella ragione o a “ricamare” sogni fantastici!
Gioia di credere, gioia di amare, di donarsi, di avanzare a grandi colpi di remo nella vita, docile come l’acqua!
Come si può non essere felici!
E’ talmente semplice, talmente elementare, talmente naturale!
Attraverso le peggiori calamità, la felicità riaffiora sempre: come un geyser sopra il quale si ammucchiassero invano gli ostacoli.
La felicità e la vita sono la medesima cosa.
Non essere più felici significa dubitare del proprio corpo, del calore del proprio sangue, del fuoco divoratore del proprio cuore, di quelle grandi luci dello spirito in cui si immerge tutto l’essere.
L’infelicità stessa ci reca anche le gioie dell’anima che si dona sanguinando, che pesa il proprio sacrificio e ne analizza l’amarezza.
Gioia crudele, ma gioia superiore, gioia riservata all’uomo il cui cuore lacerato intende.
Fantasticare – Pensare
Le ore del fantasticare sono ore di vita profonda, in cui tutta la poesia che fluttua dentro di noi danza come folletti di fuoco.
Poi giunge il sole.
Nebbie lattiginose calano nuovamente: come se il fiume le chiamasse. Si vede soltanto la grande spada dell’acqua chiara. E la ragione mette ordine, riunisce le scoperte sparse, scaturisce dal fantasticare, e unificandole impone loro il segno della propria dominazione.
Gioia di trovare, di confrontare! Gioia di dare un senso e una direzione! Gioia di comprendere e di approdare ai pendii o alle alte vette del vero, del bello e dell’utile!
Lo spirito svolge le linee chiare dei raffronti, ne libera le leggi.
L’uomo si sente in quel momento superiore a tutti gli elementi, signore di questo universo indefinito in cui cervelli non più grandi di un frutto o di un uccello impongono l’ordine e l’armonia.
Chi non sa godere delle possibilità di fantasticare e di pensare, offerte in ogni attimo all’uomo, ignora la nobiltà della vita.
Si può sempre rimanere incantati, poiché i sogni sono i nostri violini segreti.
Si può sempre pensare, cioè avere la mente non solo occupata, ma vibrante, tesa verso una dominazione più potente, più esaltante del fuoco di mille desideri.
Annoiarsi, significa rinunciare al fantasticare e al pensare.
La noia è la malattia delle anime e dei cervelli vuoti. In tal caso, la vita diventa ben presto una fatica orribilmente arida.
L’amore stesso si esalta e si meraviglia solo nei limiti in cui l’essere superiore nutre la poesia e rafforza gli slanci della sensibilità.
Anche il proprio amore occorre sognarlo e pensarlo.
La pazienza
La pazienza è la prima delle vittorie, la vittoria su sé stessi, sui propri nervi, sulla propria suscettibilità.
Fino a che non la si acquista, la vita rimane una serie di capitolazioni, capitolazioni con strepito, certo, con grida che si prendono per manifestazioni di autorità – e invece significano solo rinuncia dinanzi all’orgoglio.
Essere pazienti significa attendere il proprio momento, col dito sul grilletto, come quando si aspetta al varco la preda: significa edificare ogni atto del giorno nell’ordine e nell’equilibrio – grosse pietre che sostengono l’edificio.
La pazienza dà la gioia di non aver ceduto.
L’impazienza lascia nel cuore il rimpianto di essersi lasciati trasportare e di aver creato attorno a sé un’agitazione vana e nociva.
L’obbedienza
Nessuna opera di grande respiro può compiersi nell’egoismo e nell’orgoglio.
Obbedire è una gioia, perché è una forma di dono, di dono illuminato.
Obbedire è fecondo, moltiplica il risultato degli sforzi.
Obbedire è un dovere, perché il bene comune dipende dalla disciplinata unione delle energie.
La società umana non è formata da un nugolo di zanzare accanite e irrequiete, che si avventano nell’aria seguendo il loro interesse o il loro umore. Essa è un grande complesso sensibile che l’anarchia rende sterile o pericoloso, mentre l’ordine e l’armonia gli offrono possibilità illimitate.
Un popolo ricco, composto da milioni di individui che siano però isolati dall’egoismo, è un popolo morto.
Un popolo povero, in cui ciascuno riconosca con intelligenza i propri limiti e i propri obblighi verso la comunità e obbedisca agendo solidalmente, è un popolo vivo.
L’obbedienza è la forma più elevata dell’uso della libertà.
E’ una costante manifestazione dell’autorità, l’autorità su sé stessi – la più difficile di tutte.
Nessuno è realmente in grado di dirigere gli altri, se non è prima in grado di dirigersi da solo, di domare dentro di sé il destriero orgoglioso che desiderava lanciarsi follemente nel vento dell’avventura.
Dopo aver obbedito si può comandare, non per godere brutalmente del diritto di schiacciare gli altri, mas perché il comandare è una prerogativa magnifica quando mira a disciplinare forze scalpitanti, conducendole alla pienezza del risultato, fonte suprema di gioia.
La bontà
Talvolta una parola, una sola, un gesto d’affetto, uno sguardo pieno d’amicizia sincera possono salvare un uomo sull’orlo dell’abisso.
Coll’affetto e coll’esempio si può tutto.
Urlare, strepitare, di rado conduce al fondo dei problemi.
Occorre essere buoni, intuire quel che passa nella nebbia di ogni cuore, mitigare il necessario rimprovero con una battuta amichevole che restituisca la speranza: porsi sempre nei panni dell’altro, nell’anima dell’altro, pensare alla propria reazione personale – come se l’osservazione, l’incoraggiamento, il rimprovero li si ricevesse anziché farli agli altri.
Gli uomini rimangono per la maggior parte dei gran bambini, abbastanza viziati ma rimasti sensibili, inclini all’affetto.
Non vi sono trentasei vie per guidarli, ce n’è una sola: quella del cuore.
Le altre vie sembrano a volte quelle più facili da imboccare, ma alla fine non conducono a nessuna parte.
Beata solitudo
Il più delle volte la compagnia non è che agitazione, rumore, disturbo alla propria solitudine.
Ricercare costantemente quella che viene chiamata l’animazione, significa aver paura di ritrovarsi in presenza di sé stessi.
Significa, in effetti, sotto il profilo morale, prendere la fuga.
Come si può confondere la gioia col fatto di stare sempre mescolati alla folla chiassosa?
Perché bisogna assolutamente rimanere inghiottiti, in mezzo ad altri esseri, per ritenersi felici?
In tal caso, si è in contatto solo con l’apparenza degli altri: si gode soltanto del loro contegno artificioso o superficiale.
Questo può offrire evidentemente distrazione, un piacere passeggero, una specie di folata di vento. Ma quale differenza tra questo “piacere” senza profondità, e la gioia profonda, essenziale, del conversare con sé stessi, dell’analisi dei propri pensieri intimi e della propria più segreta sensibilità!
In quest’ultimo caso si vede tutto, si va al fondo di tutto.
Negare la potenza, l’ampiezza di questa gioia vera significa negare la vita interiore.
La solitudine rappresenta per l’anima una magnifica occasione di conoscersi, controllarsi, formarsi.
Solo i cervelli vuoti e i cuori instabili hanno timore di rimanere nel silenzio, davanti a sé stessi.
Sono questi i momenti in cui si vede se i sentimenti sono tenaci, oppure se erano soltanto rumore.
I sentimenti elevati possono vivere da soli, senza presenza fisica: l’isolamento, al contrario, li purifica e li innalza.
La gioia, la gioia che si posa come un blocco di granito sotto l’acqua della vita che scorre, quella gioia che non abbandona e non delude mai, risiede nella lotta interiore, nell’esaltazione interiore: controllarsi, dominarsi, purificarsi, elevarsi, avere il coraggio di pensare.
E’ tanto semplice, infatti, rimanere oziosi o fiacchi di fronte all’attività dello spirito!
Avere l’energia di allargare i propri campi segreti! Amare intensamente, cioè donare, in silenzio, senza riserve!
Si preferisce dimenticare o negare come queste gioie fondamentali esistano, per accontentarsi di godimenti immediati che si ritengono superiori a tutto: dopo il loro sovente non rimane nulla, eccetto polvere nel cuore e macchie sulle ali.
I mistici hanno conosciuto questo sforzo costante della vita interiore.
Essi erano forse meno felici, hanno avuto meno gioia di noi che chiacchieriamo, mescolati a volti di cui scorgiamo solo le apparenze, nutrite di parole che muoiono nella loro eco?
La gioia dei mistici è solo un esempio.
La medesima gioia interiore esiste negli altri stadi della spiritualità e della sensibilità.
La presenza corporea non è affatto indispensabile. Si può benissimo amare, essere posseduti dalle più nobili gioie del cuore, nella lontananza fisica e anche nella morte.
Sino a che non si è veramente distaccati dagli elementi esteriori, sino a che non si è in grado di vivere da soli, cioè nella compagnia più autentica, che nulla riesce a turbare, non si ha ancora raggiunto nemmeno la soglia della gioia.
Invece di lamentarsi per la solitudine occorre benedirla, occorre approfittare di questa insperata possibilità di esaminare sé stessi in silenzio e di dominarsi lucidamente, totalmente, sin nei propri pensieri più contraddittori.
A porte chiuse dinanzi al mondo? Rottura deliberata di qualsiasi contatto con l’esterno?
Tanto meglio!
Perché questo significa, se si vuole: porte aperte sull’anima; giusto contatto col proprio io; gioie esaltanti del conoscersi, dello schiudersi spirituale e, misticamente, del donarsi più delicato e completo.
Grandezza
Sovente è nel fare, con la massima nobiltà, mille piccole cose spossanti che si è grandi.
Riesce infinitamente più difficile tendere mille volte la propria anima, ogni giorno, a servizi di poco conto, che darle un brillante impulso per un avvenimento di notevole spicco.
Il merito è esiguo, in tal caso.
Soltanto la vastità dell’occasione passeggera dà all’anima la forza di agire, il desiderio di sorprendere, permettendoci inoltre di sentire la più alta opinione di noi stessi.
Si può riuscire a meraviglia in una grande cosa, e rimanere lontani dalla vera grandezza.
La grandezza è la nobiltà dell’anima che si adopra, ed effonde doni per ciascuno dei nostri doveri, sopra tutto quando essi appaiono privi di tutto quel che potrebbe nutrire la nostra vanità quotidiana.
Per la donna come per l’uomo.
La grandezza, per una donna, sta sovente nel dedicarsi, istante dopo istante, a doveri silenziosi anche se banali.
Eppure, chi l’ammirerà?
Chi conoscerà le mille battaglie combattute, nel fondo del suo cuore, contro la pigrizia, l’orgoglio, il canto delle passioni, la mollezza che richiama l’anima e il corpo verso le calde sabbie della vita facile?
Colei che nonostante tutto questo va avanti, resiste, progredisce, è grande perché il dono di sé stessa è stato totale – senza bisogno del richiamo di illusioni!
Tante persone soddisfatte si lamentano sempre, trovano tutto sgradevole: non sanno mai rallegrarsi sinceramente di nulla!
Tutto sembra loro noioso perché non si donano mai, perché accolgono ogni istante – in cui occorrerebbe offrire una parte di sé stessi – con l’intenzione ben ferma di dare solo l’indispensabile, e anche questo a malincuore.
Tutto è questione di donare.
Gli uomini felici sono coloro che si donano.
Gli insoddisfatti, coloro che soffocano l’esistenza in un perpetuo tirarsi indietro, chiedendosi continuamente che cosa stanno per perdere.
Virtù, grandezza, felicità, tutto ruota attorno a questo: donarsi!
Donarsi completamente, sempre. Fare ciò che si deve generosamente, con il massimo impegno, anche se l’oggetto del dovere è senza grandezza apparente.
Dovunque si sia, in alto o in basso, uomo o donna, il problema rimane sempre il medesimo: è il donare che rende le anime chiare o torbide.
Note dal fronte russo
La grande ritirata
Morire vent’anni prima o vent’anni dopo poco importa.
Quel che importa è morir bene.
Soltanto allora inizia la vita.
Semplice soldato, io posso morire domani.
L’umiltà della mia sorte nella vita del fronte mi prepara meglio a una tale conclusione. Non essendo vissuto come un santo, vorrei morire con un’anima il più possibile “in ordine”.
Ho forse le settimane contate? Occorre quindi moltiplicare le occasioni per purificarsi.
Un tempo avevo fantasticato una lunga malattia per prepararmi alla morte. Ma ciò sarebbe avvenuto in un’atmosfera di consunzione.
Qui, invece, è nella potenza, nella pienezza della volontà che viene offerta questa preparazione.
Mi rendo conto della mia possibilità.
Ma ritornerò forse vivo, più vivo di prima?
In ogni modo, questa grande ritirata, che la vita o la morte chiuderà, sarà una benedizione.
Io ne godo liberamente, con pienezza, come di un sole sostentatore e magnifico.
Perché dovrei tremare sotto i suoi fuochi?
Il soldato impara ad essere grande in mezzo alle cose più terra-terra, o più spiacevoli.
L’eroismo sta nel rimanere in piedi, lottare, essere sempre vigili, gioiosi e forti, nelle miserie senza nome e senza storie del fronte, in mezzo al fango, agli escrementi, ai cadaveri, all’aria pesante di acqua e di neve, ai campi sterminati e incolori, all’assenza totale di gioia esteriore.
Noi ci allontaniamo ogni giorno di più dal mondo di un tempo.
Non siamo ormai dei mezzi-morti che, stringenso i denti, avanzano attraverso le brume?
Occorre sempre guardare a chi ha meno di noi e rallegrarsi di quel che si ha, senza riempirsi l’anima di incerte chimere.
La vita è sempre bella quando la si considera con occhi sereni, luce di un’anima in pace.
Da soldati, noi non abbiamo nulla – eppure siamo felici.
Occorre, prima di tutto, spogliarsi del disordine di tutte le schiavitù, per trovare alla fine la gioia – che fiorisce soltanto nelle anime nude.
Guerra non significa solo combattimento. Significa anche una lunga serie – a volte massacrante, a volte spossante – di rinunce silenziose, di sacrifici quotidiani, senza importanza.
Dovunque la virtù si forgia nel medesimo modo.
Le privazioni, l’attesa umile, sterile, di fronte alla morte, il servizio durante il quale, lontani da ogni clamore, si gioca la vita in mezzo a campi e boschi sconosciuti, l’inerzia al di fuori di qualsiasi gioia umana: questa è la vera guerra, quella che fanno milioni di uomini che non conosceranno mai la gloria strepitosa e che -–se non moriranno – torneranno nei loro paesi, col volto chiuso, le labbra serrate, perché non verrebbe compreso quanti strazi e quante rinunzie vi siano stati nel loro oscuro eroismo.
La folla viene colpita dall’eroismo solo quando è brillante e rumoroso.
Quel che impressiona il pubblico è lo scalpore, non la lenta e penosa ascensione dell’anima che giunge alla grandezza: nel silenzio e nell’ombra.
Ma si viene mai compresi? Si capisce, si vede in noi dell’altro, oltre a quanto appare alla superficie?
Il fondo del cuore è un tale abisso di desideri, di rimpianti, di sconforti, che si preferisce non toccarlo. E’ più semplice , più gradevole attenersi all’apparenza delle cose e, senza pensar troppo, godere delle parole e dei contegni che tessono il paravento del dramma umano.
Siamo noi, noi soldati, dietro a quel paravento. Quali anime immagineranno il nostro cammino e avranno la forza di raggiungerci spiritualmente?
Lo zelo, la stessa intelligenza non possono bastare a tutto.
Esiste una cultura, un’armonia dell’anima, e una saggezza traente luce dal pensiero come da un sole, che possono risultare soltanto da una lunga disciplina delle qualità superiori, poste con applicazione e con metodo in contatto con le opere più nude dell’intelligenza umana.
Lo studio disinteressato delle civiltà antiche, madri delle idee e dei sistemi, lo studio deella Filosofia, lo studio delle Matematiche, trama segreta di tutte le Arti, lo studio comparato dell’insegnamento della Storia: essi soltanto possono dare la compiuta armonia delle facoltà, senza la quale i più splendidi successi assumono sempre un carattere di miracolo e di fragilità.
La maturità dell’intelletto non ha nulla di inconciliabile col genio. Essa lo rende rigoroso e umano. Lo incanala. La sua forza non ne risulta affatto diminuita, ma più efficace. Richelieu non avrebbe dato alla Francia la metà dei benefici del suo genio se fosse stato un autodidatta.
La debolezza del nostro secolo consiste nel fatto che esso è il secolo degli autodidatti. La loro opera ha un carattere disordinato, non umano, instabile. Il vero genio è equilibrato, per lo meno il genio benefico, portatore di felicità, di progresso, di ordine.
Il genio istintivo stupisce, abbaglia, ma generalmente costa caro.
La notte sembra ancora più scura dopo aver assorbito il fuoco d’artificio.
Il banale e il volgare sono vicini al grandioso e all’eterno.
Poco fa ho visto uccidere un maiale. Ci teneva alla vita, poverino. Quasi esangue, ancora grugniva e gemeva. Bestie e uomini, davanti alla morte, siamo gli stessi. Dobbiamo controllarci severamente, per comporre un coraggio che ci liberi dalle implorazioni della bestia in agonia, nei momenti in cui è in gioco il nostro onore di uomini.
Come soldati, rischiamo continuamente la nostra pelle – cioè la nostra semplice, elementare gioia di esistere.
La morte è in faccia a noi. La morte è dovunque. Ed è per questo, indubbiamente, che noi riusciamo a comprendere meglio di altri la grandezza della vita. Se l’anima non si elevasse, ritta come le canne dei fucili, dritta come la croce delle tombe, noi affonderemmo presto nella decomposizione morale.
Tutti si esaurisce entro un bosco, alcuni campi, pantani, alberi spogli, vicino ai quali si sta in agguato, giorno e notte, soffiandosi sulle dita, stropicciandosi le orecchie, battendo in piedi sul terreno diventato secco come il granito.
Alla sera, dopo le quattro, calano le ombre, in cui soltanto lo spirito veglia. Occorre stringere i lacci che trattengono il cuore, per non lasciarsi andare alle lacrime dinanzi a un abisso del genere.
L’anima si trova di fronte a un abbandono totale.
Tuttavia essa rimane fiera e canta, poiché, spoglia come nei tempi dell’innocenza, ha coscienza della gravità della missione offerta a coloro che riscatteranno, negli abissi di solitudine interiore, le debolezze e le brutture del tempo in cui le anime giravano a vuoto.
Qui, le ali si mettono a battere, si liberano del fango dissecato che le imbrattava. Ritrovano la gioia originaria dell’aria pura, dello spazio aperto, degli orizzonti lontani.
Se noi, qui, avremo sofferto come si deve, raggiungeremo la nostra vera vittoria.
Ma sapremo soffrire con purità sino in fondo?
Non ci sentiremo ridicoli, al ritorno, con le nostre ali di sole?
Avremo il coraggio di non essere vergognosi, ascoltando gli innumerevoli ghigni delle anime sudicie, che, con insolenza, si credono trionfanti?
Domare i cavalli
Le pulci, a ranghi serrati, hanno invaso le nostre uniformi sporche di terra. Alcuni sorci corrono qua e là. Un topo si scalda contro il mio naso durante le ore di sonno.
Queste compagnie risultano assai edificanti, a proposito della vanità del nostro orgoglio: di noi che non riusciamo a sottrarci nemmeno alle bestie più piccole – alle più ridicole e più sporche.
Ma la poesia è dovunque. Davanti ai nostri fucili, migliaia di passeri saltellano tra le siepi, scotendo con garbo la loro tonda pancetta. Ascoltano a un metro di distanza i piccoli complimenti coi quali cerchiamo di gingillarci con loro. Poi si annidano, a buffe frotte, in mezzo ai giunchi: strepitano, pigolano, fischiano, come se il cielo d’argento gettasse manciate di luminosa allegria sul paesaggio di gelo.
Vi sono anche corvi che passano, come neri lampi, poco numerosi e muti: di tanto in tanto lanciano il loro alto grido rauco, per ricordare che la morte ci attende al varco, severa come loro, vorace come loro, con l’ala oscura e tagliente.
Noi ci sforziamo di sorridere sempre: ai passeri che cantano, ai corvi solenni che passano.
Ma il cuore è il cuore e, dietro al sorriso delle labbra e degli occhi, possiede i suoi poveri, balordi, segreti di bestia sofferente.
Da qualsiasi parte ci si sente spiati dalla morte. Ogni passo ha un costo, passo pesante che occorre rendere leggero, malgrado la mitragliatrice che pesa, i piedi che vacillano, le zone fradice di terreno in cui si sguazza, le grandi buche in cui si cade senza una parola.
Ecco qua, la vita ingrata delle armi, quella che non conosce né ebbrezza né spettatori, quella in cui – non importa quando – si può venir pugnalati, si può stramazzare, essere trascinati vivi in mezzo ai nemici di fronte. Occorre avanzare con calma, metro per metro, mentre un proiettile può esplodere a dieci passi. Qualche colpo nel buio, tra le postazioni; un grido rauco; e la notte scorrerà di nuovo, buia, gelida, implacabile.
Tutte le nostre forze vitali vorrebbero ribellarsi in quei momenti. Poiché ci si tiene alla propria vita, alle proprie membra, al sangue che pulsa potente nel corpo; ci si tiene alla entità di carne; ci si tiene alla luce che deve rinascere. Il vigore, l’ardore, il ruggito della bestia umana gridano la loro volontà di manifestarsi, di bruciare, di risonare.
Tenere la propria vita così chiusa in sé, piatta, offerta nell’ombra, pronta all’ultimo balzo o all’ultimo rantolo, è una tremenda scuola di energia. Noi ritorneremo con volontà temprate.
Ma il gusto della vita sarà ancora più acuto, perché avremo conosciuto intensamente il valore, il sapore, la dolcezza ardente di ogni istante – che cade come una goccia di silenzio in questa grande contrazione di cuori attenti.
Amiamo, con potenza scatenata, la nostra esistenza di carne, il ritmo dei nostri pensieri, lo slancio dei sensi – che un colpo chiaro nella notte potrebbe spezzare.
Le braccia! Le gambe! Gli occhi! Per stringere, camminare, guardare con passione e dominazione.
Tutto questo grida il suo diritto alla vita: diritto dell’animale che vuole correre e afferrare, diritto dell’intelligenza che vuole incantare sé stessa e creare.
La vita! Com’è bello, indescrivibilmente bello, esaltante – dolcezza dei corpi, luce dei meriggi, ardore del fuoco!
Questa vita, la serriamo nel nostro pugno ostinato di soldati muti, attenti, pazienti, sentinelle dell’ombra.
Abbiamo imparato a dominarci, a domare i cavalli selvaggi che nitrivano nei vasti campi dei nostri sogni fantastici. Ma tenendoli fermi con polso d’acciaio, aspiriamo, con una voluttà che ci fa chiudere gli occhi, il potente odore di vita che fuma dai dorsi dei corsieri frementi. Vita! Vita!
Fa tanto freddo che i farmaci scoppiano. Anche l’alcool è gelato nei flaconi dell’ambulanza. Poveri piedi, poveri orecchi, poveri nasi bianchi e mummificati nelle notti atroci, urlanti, fischiettanti…
Stamattina, è giunto l’ordine di partire per un altro settore del fronte.
Andremo dove ci verrà detto di andare, sorridenti nella neve, che, dal nostro risveglio, cade a grosse, lente falde.
I nostri piedi saranno assiderati, le labbra screpolate, i corpi, piegati per sentire meno freddo, pesanti e goffi – ma il fuoco interiore continuerà a salire, dando ai nostri occhi bagliori di sole.
Qui le nostre anime si sono tese. Questi poggi, queste file di abeti, questo sottobosco fradicio, ci hanno visto mentre l’occhio vivido spiava ogni linea.
Questo cielo nero che contemplo qui per l’ultima volta, io l’ho striato coi miei proiettili traccianti, mentre le pallottole nemiche lanciavano i loro gnaulìi acuti di gatti che si avventano.
Il mio zaino è già pronto. Riguardo la paglia calpestata, spezzata in piccoli fili su cui riposavo rientrando, stanco e gelato, dai pattugliamenti notturni. La piccola lampada fumosa rischiara con la sua fiamma gialla la mia ultima nota quotidiana. Da una corda pendono ancora alcune camicie, alcuni fazzoletti lavati alla meglio, già coperti di polvere. Poveri muri di argilla, forno che veniva scaldato con avanzi di tramezzi, piccoli mattoni gelati, con bianchi disegni di felci.
Raccogliamo le gavette ammaccate, le borracce foderate di pelo, le armi dai neri balenii.
Più tardi, ci saranno di nuovo, qui, piante grasse, icone, una donna dalle pesanti sottane, un odore acre di grasso vegetale. Ma sarà morta per sempre la vita umile e brulicante dei ragazzi stranieri, sperduti nel fondo della steppa, i quali, quando partivano di notte, non sapevano mai se sarebbero rientrati trattenendo con le mani carni straziate e sangue tiepido…
Questo misero quadrato semi-buio sarà stato il centro di una intensa vita spirituale. Essa verrà via con noi, risorgerà per caso nelle strade gelate, negli alloggi improvvisati, sui pendii, sui fossi ove occorrerà aspettare al varco, incalzare l’avversario o evitare i suoi proiettili.
Un giorno, noi potremo ritornare qui, ma l’essenziale sarà scomparso.
Per questo partiremo all’alba senza voltarci indietro. La vita è davanti – anche la vita è morte.
Mah! Più grande è il sacrificio e più ci si dona.
Ed è per donarci che ci siamo levati, col cuore che scoppiava.
Il ciclo apocalittico
Il vento soffia a raffiche sferzanti che fanno fischiare la neve saettante. Il fiume è gelato; gelati i suoi piccoli affluenti che scorrevano nei crepacci; gelati le colline, i cardi selvatici, le officine distrutte.
Anche il mio cuore ha freddo: freddo a causa di questi mesi di tensione dell’anima, di isolamento in una solitudine disumana; freddo da sentirsi simile a quegli alberi neri, immobili, che la tramontana sferza.
Angoscia in tutto…
Tutti sono paralizzati dal freddo. Dobbiamo spezzare il pane gelato. Tiriamo via col coltello le enormi zacchere di fango dai nostri vestiti. Togliamo larghi pezzi di pania nerastra attorno alle scarpe e alle uose.
Niente acqua. Bisogna camminare chilometri per attingere un liquido scuro, pieno di frammenti di erba.
Amiamola, questa miseria, nonostante tutto: ci eleva, ci prepara a destini che esigono cuori puri e forti.
Il ciclo della guerra è, ormai, apocalittico: le onde si dilatano sempre più, crescono in velocità e in violenza, per rovesciarsi in un incredibile moto rotatorio.
Le guerre sono diventate rivoluzioni universali.
Il mondo intero è preso nel loro vortice: le armi si scontrano, le forze economiche si affrontano, si sbranano – le forze dello spirito si tendono in un duello spietato.
L’universo dovrà sanguinare, lottare, conoscere le angosce delle fughe, le agonie delle separazioni. Migliaia di uomini, milioni di uomini dovranno guardare con occhi gelidi o ardenti la Morte – sempre la stessa, ovvero sempre crudele, tale da straziare il cuore e le carni contemporaneamente.
Il dramma è inevitabile. Soltanto i ciechi e gli stolti, cioè quasi tutti, ritenevano che fosse questione di conflitti tra nazioni rivali, conflitti destinati ad esaurirsi in spazi determinati.
Si tratta, invece, di guerre di pseudo-religione, implacabili come tutte le guerre di religione, che assumeranno proporzioni quasi illimitate, raggiungendo fino all’ultima banchisa i Lapponi o gli abitanti de Tahiti, i quali verranno così costretti alla scelta: come tutti.
Quando, come, si chiuderà questo eccezionale regolamento di conti?
Le nostre vite saranno per lungo tempo attraversate da questi lampi. I nostri figli cresceranno tra i bagliori accecanti delle idee-armi che cadono o che trionfano.
Secolo in cui il sangue a volte si ghiaccia, di fronte all’ampiezza del dramma. Ma secolo intriso di pathos, in cui l’intero universo si rinnova: più mediante lo spirito che mediante il ferro.
Tragedia totale, di dimensioni sinora sconosciute al mondo: noi ne siamo gli attori, ma sono i cuori a sostenervi le parti. Milioni di cuori agiscono sulla scena: ancora ingenui, o maturi e muti, o contaminati, o insensibili.
A percorrere cento metri tra le linee fangose si rientra sfiniti, come se si avesse dovuto attraversare uno stagno di colla forte.
Niente da fare.
Nulla da leggere. Abbiamo solo un misero lume a petrolio, con una fiammella giallastra che rischiara un metro quadrato del nostro rifugio.
Occorre maggior coraggio per vivere immersi nel fango, che per avanzare con la mitragliatrice sotto il braccio contro il nemico. Si sentono salire la tentazione, le voci confuse, gli interrogativi demoralizzanti: “Che fai qui? Non vedi che stai perdendo il tuo tempo? I tuoi sforzi? I tuoi sacrifici? Si sa almeno che esisti? La tua opera non si rovina mentre ammuffisci nell’oblio…?”
Ma l’anima riprende presto la sua serenità; essa sa che nulla è più prezioso di questo rinunciare, di questo muto discendere nel fondo della coscienza. La vera vittoria, la vittoria su sé stessi, dove può essere conquistata con maggior merito se non in mezzo a queste umiliazioni accettate a testa alta, dominando, senza gesti inutili, la materia ostile, l’abbandono del cuore e il nemico sornione che vorrebbe aggredire lo spirito?