Val Masino, per poi spandersi in tutta la Valtellina.
In tutte le culture gli uomini hanno cercato di interpretare gli avvenimenti naturali dando una spiegazione che fosse accettabile e che li rassicurasse. L'ignoto è spaventoso, invece una cosa, seppur terribile, non terrorizza, spaventa ma non terrorizza. Su questi presupposti antropologici è nata la leggenda del Gigiat, inizialmente limitata alla
D'autunno passa tra i castagneti e urlando divalla a piroette: ricci e foglie diventati di bronzo gli s'attaccano al petto ed alla schiena. Di primavera sceglie un alpeggio per farsi tosare il lungo vello ricciuto prima di risalire sulle cime. Per il Gigiat si lascia sulla lista di prato segato un po' d'erba e prima di scaricare i monti si deposita del fieno sulla porta delle baite perché quando la neve tutto copre egli lo trovi. Per lui le donne nascondono nei boschi cacio, castagne, noci. C'è chi l'ha visto metà uomo e metà capro sfrecciare fra gli alberi e scomparire come se inghiottito dalla scagliosa. corteccia di un cembro; c'è chi l'ha udito fra i vigneti d'Ardenno, quando i grappoli si tingono, suonare con lo zufolo ed il crosciare della cascata si intonava a quella melodia come il fremito delle selve ed il battere del cuore. Perché il Gigiat è simbolo della vita che si rinnova e dell'eterna giovinezza che sta sui monti e dai monti scende con i fiumi ad allietare il mondo.” Così Aurelio Garobbio descrive il Gigiat nel suo libro Montagne e Valli Incantate
Il racconto di Garobbio è particolarmente interessante in quanto, dopo la descrizione folcloristica del Gigiat, inserisce una riflessione sul reale significato del Gigiat "Perché il Gigiat è simbolo della vita che si rinnova e dell'eterna giovinezza che sta sui monti e dai monti scende con i fiumi ad allietare il mondo" individuano con precisione la simbologia di quest'essere immaginario. Di fronte a evidenti difficoltà del vivere in valli montane le popolazioni dovevano trovare un "personaggio" che se da un lato poteva essere portatore di fortuna e prosperità doveva anche avere un lato oscuro. La scomparsa di pastori e cacciatori non era più dovuta al territorio ostile o agli errori umani, ma alla presenza di quest'essere misterioso, quindi accettabile emotivamente. L'eterno mito della rinascita e della morte, dell'alternanza delle stagioni il freddo inverno e la rigogliosa estate, il definitiva il ciclo della vita.
Altro aspetto del racconto di Garobbio, che raccoglie tradizioni popolari, è la danza del Gigiat, o meglio il Gigiat che costringe a ballare e marmotte con lui. Il parallelismo con Orfeo e con i Fauni è abbastanza scontato, come se le tradizioni mitologiche greche in un qualche modo siano arrivate in Valtellina e lì il mito si sia adattato alle condizioni socio culturali montane.
Ai giorni nostri il mito del Gigiat è ancora presente nelle tradizioni dell'alta Valtellina. Suille porte delle malghe negli alpeggi è frequente trovare sull'uscio uno specchio o dei teschi di animali. Entrambe le cose hanno la funzione di interagire con il Gigiat che vedendosi nello specchio si spaventa e che vedendo il teschio comprende che nella malga abita un cacciatore e quindi è meglio andarsene.
Nel libro "Val Masino e la sua gente" di Mario Songini, Tipografia Bettin 2006, è riportata una bellissima poesia in stretto dialetto dedicata al Gigiat, in riferimento alla sua apparizione, durante una sfilata di carri carnevaleschi a Morbegno nel 1956
L’è scià el Gigiàt de San Martìn
l’è ‘na bestia düra
che a tüti la fa pagüra.
L’em ciapä e encatenä
e a Murbegn, al carnevä,
l’em portä.
El so lac ‘l’è tant fregè
che senza el quac’ al sé quagè”
E' arrivato il Gigiat di San Martino
è una bestia dura
che a tutti fa paura
L'abbiamo preso ed incatenato
E a Morbegno, al carnevale
l'abbiamo portato
Il suo latte è così freddo
che senza caglio s'è cagliato