Il dramma atroce di Norma Cossetto e la “pulizia etnica” nella Jugoslavia di Tito, un articolo di qualche tempo fa, tuttora drammaticamente attuale.
La storia per quella che è non per quello che l'egemonia culturale propina. Ho già avuto modo di scriverlo su queste stesse pagine: la storia non si falsifica soltanto dicendo cose non vere; ma anche dicendo una parte soltanto di cose vere. Per esempio, riferendo di comportamenti crudeli di una parte, additata alla generale riprovazione, e omettendo di riferire di analoghi comportamenti della parte avversa.
Si costruisce in tal modo una “vulgata”, cioè una narrazione ampiamente divulgata, diffusa capillarmente, destinata ad essere propagata fra il popolo; e lasciando magari ad una ristretta cerchia di specialisti la possibilità di accedere ad una versione integrale e non purgata di quei medesimi fatti.
Esempio tipico di un tal modo di procedere è la narrazione odierna delle vicende della seconda guerra mondiale, esemplificata e banalizzata in una versione “ufficiale” cui a tutti è fatto obbligo di attenersi, quantomeno nelle esternazioni pubbliche.
Di tanto in tanto, però, qualche evento cinematografico e/o televisivo viene a sollevare un lembo del velo “politicamente corretto” che avvolge i fatti della nostra storia più recente, e allora anche l’uomo della strada comincia a porsi delle domande irriverenti. É stato il caso, qualche anno addietro, di “Katyn”, il film-scandalo di Andrzej Wajda. Ed è il caso, in questi giorni, di “Red Land - Rosso Istria”, mandato in onda su RAI 3 in coincidenza con una serata del festival di San Remo. Il film è ambientato in Istria, pochi giorni dopo l’8 settembre 1943, e narra la vicenda – realmente accaduta – di una giovane studentessa universitaria, Norma Cossetto, arrestata dai partigiani jugoslavi, torturata con ferocia inaudita, violentata ripetutamente e infine gettata in una “foiba”. Le foibe sono profonde caverne verticali, che caratterizzano il territorio tra Venezia Giulia ed Istria.
L’uccisione barbara di Norma Cossetto è stato un episodio sconvolgente, fino ad oggi celato al grande pubblico e disvelato quasi per caso poche sere fa, grazie allo “zapping” di qualche spettatore poco interessato alle canzonette di San Remo. In realtà, si tratta di un fatto perfettamente noto agli addetti ai lavori, un episodio di ordinaria ferocia, uno dei tanti registratisi in quelle “radiose giornate” del 1943 e degli anni seguenti.
La Jugoslavia e la minoranza italian
Ovviamente, tralascerò di dilungarmi sul singolo caso – o su altri analoghi – e tenterò piuttosto di ricostruire la vicenda generale della persecuzione degli italiani agli albori della “nuova Jugoslavia” del maresciallo Tito.
V'è da premettere, innanzitutto, che la Jugoslavia non era uno Stato nazionale, ma uno Stato artificiale, uno dei due (l’altro era la Cecoslovacchia) creati dalla bislacca fantasia del presidente americano Wilson e dei suoi reggi coda “occidentali” alla fine della Prima Guerra mondiale.
Il Regno Serbo-Croato-Sloveno (dal 1929 “Jugoslavia” cioè Slavia del Sud) venne fabbricato aggregando al Regno di Serbia una congerie di altri popoli, in gran parte ostili ai serbi: sloveni, morlacchi, montenegrini, croati della Croazia-Slavonia e dell’Erzegovina, musulmani “mujos” della Bosnia, ungheresi della Vojvodina, rumeni del Banato, albanesi del Kosovo, turchi del Sangiaccato e – ultimi non ultimi – gli italiani dell’Istria e della Dalmazia.
Gli italiani costituivano una robusta minoranza in quelle due regioni, ma erano addirittura maggioranza nelle zone costiere, specialmente nelle grandi città: da Capodistria a Pola, da Fiume a Zara, da Ragusa a Sebenico, a tante altre italianissime città. Era il retaggio degli antichi insediamenti latini e, soprattutto, del dominio della Repubblica di Venezia, che aveva fatto dell’intero mar Adriatico un grande lago italiano. V’era, poi, un numero imprecisabile di “slavi snazionalizzati” che parlavano italiano e che si sentivano italiani. E v’era, inoltre, un’altra zona grigia, nell’interno, dove magari si parlava ancora il tedesco dell’impero austroungarico e non ci si sentiva né italiani né sloveni (in Istria) o croati (in Dalmazia).
La Jugoslavia, comunque, andava in pezzi con lo scoppio della Seconda Guerra mondiale: la Serbia finiva sotto amministrazione militare tedesca, la Slovenia era spartita fra Germania e Italia, la Croazia diventava indipendente, parte della Dalmazia andava all’Italia, il Kosovo all’Albania, la Macedonia alla Bulgaria, eccetera.
Ma, quando le sorti del conflitto cominciavano a cambiare, russi e anglo-americani resuscitavano “a tavolino” la Jugoslavia, attribuendola, nella spartizione, alla sfera sovietica. Gli anglo-americani abbandonavano i loro amici del movimento di resistenza che faceva capo al governo serbo di Londra, e davano via libera al Comitato Antifascista di Liberazione Nazionale (AVNOJ), paravento del clandestino Partito Comunista Jugoslavo (KPJ).
Leader indiscusso del KPJ e dell’AVNOJ era il croato Josip Broz, nome di battaglia “Tito” . Però, essendo i suoi connazionali croati schierati coralmente al fianco dell’Asse, Tito faceva principalmente riferimento ai serbi, fino ad essere considerato dai suoi avversari un “serbo-comunista”.
In effetti, il Comitato Antifascista titino operava non soltanto contro gli eserciti occupanti, ma anche contro i rappresentanti delle nazionalità ex-jugoslave che volevano mantenere la propria indipendenza e contro tutte le minoranze etniche considerate non assimilabili ad una Jugoslavia restaurata. In altre parole, la Resistenza titina non soltanto guerreggiava contro tedeschi e italiani, ma diventava anche uno strumento di pulizia etnica. Fenomeno – la pulizia etnica – che rientrava in una antichissima prassi della politica balcanica: si infieriva sulle popolazioni civili che si volevano terrorizzare e scacciare, affinché queste abbandonassero il loro territorio e lo rendessero disponibile per nuovi insediamenti.
L'occuapazione jugoslava della Venezia Giulia
Era soprattutto dopo il ritiro italiano dalla guerra (8 settembre 1943) che la situazione precipitava in tutti i Balcani. Non solo nella ex-Jugoslavia, ma anche in Grecia e in Albania. L’acme, comunque, si raggiungeva dopo il 20 aprile 1945, quando Tito lanciava l’offensiva finale su Trieste, il “tappo” che ancora impediva ai partigiani jugoslavi di portare a compimento l’occupazione totale della Venezia Giulia, regione che i titini avrebbero voluto “jugoslavizzare”. A difendere la città, oltre alle truppe tedesche e della Repubblica Sociale Italiana, le milizie nazionaliste di Serbia, Slovenia e Montenegro.
Il 1o maggio, dopo che gli anglo-americani avevano preparato il terreno con bombardamenti massicci, il IX Corpus jugoslavo aveva ragione delle ultime difese italo-tedesche, occupando Trieste, Gorizia e l’intera regione giuliana. Per la popolazione italiana iniziava un terribile incubo, che durerà un mese e mezzo, fino a quando gli accordi di Belgrado divideranno il territorio giuliano-istriano in una Zona A (assegnata all’occupazione angloamericana) e in una Zona B (destinata all’annessione alla Jugoslavia).
Prima, per oltre quaranta giorni, Trieste – ufficialmente annessa alla Jugoslavia – sperimentava l’orrore della violenza titina. Anche se qui, ovviamente, l’obiettivo dei titini non era la pulizia etnica, come in Istria e Dalmazia. Inoltre, i partigiani jugoslavi dovevano agire con una certa cautela, stando attenti a non mettere in difficoltà le truppe occidentali co-occupanti. Queste, dal canto loro, si accontentavano di salvare la faccia, limitandosi a qualche protesta ufficiale quando i titini eccedevano troppo in entusiasmo “liberatorio”. Per il resto, il meccanismo era lo stesso già sperimentato con successo in Istria e Dalmazia: arresti in massa dei nemici politici (di etnia italiana ma anche croata e slovena) oltre che degli elementi considerati potenzialmente ostili – anche soltanto per posizione sociale – alla comunistizzazione del paese.
Gli arrestati sparivano senza lasciare traccia, sistematicamente “infoibati”. Particolarmente barbaro il metodo di esecuzione. Le vittime erano legate le une alle altre, a costituire una lunga catena umana; gli esecutori sparavano all’individuo più vicino all’imboccatura della foiba; questi cadeva nel vuoto, trascinando con sé tutti gli altri. I più fortunati morivano precipitando; gli altri sopravvivevano per ore o per giorni, con gli arti spezzati, fra i cadaveri in putrefazione.
Il dramma della Croazia e della Dalmazia
Più a sud, intanto, si consumavano gli ultimi istanti di vita della Dalmazia italiana. Di italiani, a onor del vero, ne restavano ben pochi. La maggior parte di loro aveva cominciato ad abbandonare la regione fin dal novembre 1944, dopo che un anno di bombardamenti angloamericani a tappeto (54 solo su Zara) aveva spianato la strada all’avanzata dei partigiani titini.
La regione, dopo l’8 settembre del ’43, era ufficialmente sotto l'autorità dello Stato Indipendente Croato. Ma adesso – il 6 maggio 1945 – l’esercito croato evacuava la capitale Zagabria e l’ultima linea di difesa (la linea Zwonimir) ripiegando a nord, in direzione di quello che era stato il valico di frontiera fra Slovenia ed Austria, con l’obiettivo di arrendersi agli inglesi e di sfuggire così ai titini.
Verso il vecchio “confine di Klagenfurt”, quindi, si muoveva una imponente marea umana. Soltanto i militari croati erano circa 200.000, ma a questi bisognava aggiungere mezzo milione di civili in fuga: varie colonne di profughi, lunghe decine di chilometri, le cui avanguardie erano talora giunte alla meta mentre le retroguardie combattevano ancora contro i reparti partigiani che erano lanciati all'inseguimento.
Altre colonne muovevano da Karlovac e da altre città della Croazia: a comporle non erano soltanto croati, ma anche serbi, bosniaci, montenegrini, albanesi, in fuga dai rispettivi paesi; oltre che militari ungheresi e cosacchi che non erano riusciti ad aggregarsi alla ritirata tedesca.
E dalla stessa Slovenia, due giorni dopo, un’altra fiumana di gente muoveva verso il vecchio valico di confine: politici anti-serbi e militari delle formazioni collaborazioniste, insieme alle rispettive famiglie e ad altri civili.
Il 14 maggio il grosso della marea di profughi varcava il confine e si rifugiava presso la cittadina austriaca di Bleiburg, dove aveva sede il Comando inglese. La resa era ufficialmente notificata al comando alleato: «In fuga davanti all’Armata jugoslava di Tito, 200.000 soldati croati e circa mezzo milione di civili (vecchi, invalidi, donne e bambini) si trovano sulle strade, diretti incontro all’Esercito angloamericano. Nella storia del mondo, ciò rappresenta un plebiscito unico e mai visto, col quale l’intero popolo croato respinge la formazione dello Stato jugoslavo e, in particolare, il regime bolscevico di Tito. (…) Facciamo rilevare ai supremi rappresentanti alleati che non si tratta di un esercito, il quale peraltro avrebbe desiderato continuare la lotta, (...) ma di centinaia di migliaia di croati che, conoscendo il terrore del regime di Tito, si sono volontariamente messi sulla strada dell'emigrazionene.»1
Contemporaneamente, però, il Quartier Generale Alleato trasmetteva al Comando di Bleiburg il suo verdetto: «Tutto il personale di accertata nazionalità jugoslava che prestava servizio nelle forze tedesche, deve essere disarmato e consegnato alle forze jugoslave.»2
Piccolo particolare: i militari croati avevano prestato servizio non nelle forze tedesche, ma in quelle di uno Stato indipendente. Ma poco importava, e la “consegna” ai titini veniva effettuata il 15 maggio, con criminale flemma britannica.
Si chiudeva così la prima fase di quell’evento che – impropriamente – passerà alla storia come “il massacro di Bleiburg”. Evento – sia detto per inciso – che non coinvolgeva gli italiani della Dalmazia, il cui esodo si era svolto e continuava a svolgersi attraverso altre direttrici.
Erano invece coinvolti gli italiani dell’Istria. Ma in una seconda fase. Quando i partigiani jugoslavi procedevano, in territorio sloveno, alla esecuzione sommaria di una parte dei prigionieri di Bleiburg (da 55.000 ad oltre 200.000 secondo le diverse stime3). E soprattutto quando i sopravvissuti erano avviati a sud, nella drammatica “marcia della morte” verso i terribili gulag jugoslavi.
Il numero delle vittime
Quanti italiani tra le vittime di questi episodi? Impossibile stabilirlo con precisione. Le statistiche, oggi, tendono ad effettuare una valutazione complessiva dei morti nelle foibe, nella marcia della morte e nei campi di concentramento. La valutazione più accreditata fissa a circa 11.000 il numero delle vittime italiane, anche se non mancano stime più alte o più basse.4
Assai più alto, ovviamente, è il numero di quanti furono costretti ad abbandonare le loro terre per cercare rifugio in Italia: da 250.000 a 350.000.5
Furono accolti con aperto fastidio in patria, perché considerati fascisti o, comunque, responsabili delle loro stesse disgrazie. La vulgata del dopoguerra, infatti, giustificava i crimini titini come una forma di reazione per le “violenze fasciste” nei territori contesi. Come a dire che foibe e marce della morte erano in qualche modo giustificate da qualche isolato episodio di stupida arroganza da parte degli squadristi più esagitati.
Ma, allora, si preferì far finta di credere a questa versione bugiarda, e i nostri fratelli istriani e dalmati furono trattati con spocchia e disprezzo. Atteggiamento vigliacco, infame, verso quei tanti italiani la cui unica colpa era di aver abitato in città e villaggi che gli accordi tra i vincitori avevano destinato alla forzata inclusione in uno Stato artificiale. Uno Stato che oggi non c'è più, travolto dal risveglio dei popoli slavi dopo la fine del sistema comunista.
Michele Rallo
N O T E
1 Antonio PITAMITZ: Lo sterminio dei croati. Maggio-giugno 1945. // “Storia Illustrata”, 6-7/1984.
2 Antonio PITAMITZ: Lo sterminio dei croati. Cit.
3 Massacro di Bleiburg. www.it.wikipedia.org
4 Massacri delle foibe. www.it.wikipedia.org
5 Esodo giuliano-dalmata. www.it.wikipedia.org