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Pubblichiamo con enorme piacere un interessantissimo e molto ben documentato studio sui Lagunari realizzato da Alberto Codecasa.

LA FANTERIA DI MARINA DEI SAVOIA E DEL REGNO DI SARDEGNA (dal 1431 al 1861)

 

Edito in proprio nell'anno di grazia 1997

Premessa

Discutendo tra amici, come spesso accade, di attualità politiche, dei problemi impliciti alla osservanza da parte dell'Italia dei parametri di Maastricht, e dei rapporti che ne conseguiranno per il nostro paese, sono stato folgorato da una scoperta di cui sono sempre più convinto: il modo in cui un popolo "vede" la propria fanteria di marina è indicativo del modo con cui "vede" se stesso nei rapporti con il resto del mondo.

La Bandiera del Reggimento San Marco esposta a Palazzo Marina a Roma. Clik licenzaOra, se voi provate a chiedere ai nostri concittadini cosa pensino della fanteria di marina italiana, nella maggior parte dei casi saranno estremamente sorpresi dall'apprendere che è esistito, e ancor oggi esiste, un tale Corpo. E sono persone invece informatissime su quanto concerne le glorie dei marines americani, da Tripoli al Guadalcanal (come recita il loro inno), sul loro durissimo addestramento, e sui sergenti ruvidi ma in fondo buoni, o perfide carogne, a seconda dell' annata dei film visti. Il che significa che i nostri compatrioti non si "vedono" in rapporto con il resto del mondo, in quanto componenti di uno "Stato" italiano, se non tramite la mediazione di un'altro Stato. Cosa perfettamente giusta per i cittadini di un paese i cui rappresentanti istituzionali dal 1943 hanno rinunciato ad avere una politica estera propria, ma si sono accontentati di muoversi negli ambiti indicati dai propri referenti stranieri, che fossero collocati all'ovest o all'est.

Ora, la fine dell'impero sovietico avvenuta drammaticamente tra il 1989 e il 1991, la imminente creazione di una moneta unica europea (a cui però non si vede corrispondere una politica unica europea), la globalizzazione dei mercati, la necessità di sostenere a livello di comunità europea ma anche di mercati extraeuropei le iniziative imprenditoriali italiane, anche in concorrenza con quelle dei nostri partners comunitari, implica la necessità di una ripresa di quel pensiero "geopolitico" a cui per molti decenni in questo paese si è dato l'ostracismo, e che solo da poco ha ritrovato, sia pure in chiave buonista, una sua legittimità attraverso le pagine della rivista "LIMES". E poiché l' Italia non si trova nella posizione geografica del Belgio o dell' Olanda, ma ben immersa in un mare che confina con la penisola balcanica da un lato, e coi paesi dell'integralismo mussulmano dall'altro, pur non volendo minimamente rievocare idee di conquiste territoriali o coloniali da cui il nostro popolo è assolutamente alieno, non è possibile ignorare che ormai più di una volta soldati italiani hanno dovuto partecipare ad imprese di "pace", che richiedevano comunque l'invio di reparti armati. Imprese a cui tra gli altri reparti ha degnamente contribuito anche il Battaglione San Marco, di Fanteria di Marina. Ve li ricordate i commenti ironici della nostra stampa sulla vecchiezza ed inadeguatezza dei mezzi anfibi impiegati in Libano ? E se domani ci fossero da difendere interessi prevalentemente italiani, che percentuale di aiuto sarebbero disposti a darci i nostri alleati, rispetto alla nostra capacità di impegno ?

E siamo sicuri che una nostra maggiore capacità di impegno in questo senso dispiacerebbe agli americani che vedono il Mediterraneo come una delle zone del mondo a più alto potenziale conflittuale ? O piuttosto turberebbe i banchieri centrali della Framania, nuovo asse politico economico tra Parigi e Berlino? Perché per una economia di trasformazione come la nostra, l'afflusso delle materie prime e la libertà di navigazione sono indispensabili per la sopravvivenza, e non è possibile pensare che queste ci vengano sempre garantite dalla protezione di altri paesi. Come appunto avevano compreso nella prima metà dell'ottocento uomini come l'ammiraglio Des Geneys, o il contrammiraglio Giorgio Mameli.

Dicono gli studiosi della preistoria italiana, che nel nostro paese si formarono tardivamente delle importanti comunità regionali, perché il territorio abitabile e coltivabile (inizialmente le pianure costiere o padane erano un intrico di paludi) era frammentato nelle valli appenniniche e delle prealpi, sì che ogni piccola comunità viveva in modo praticamente autonomo. I rapporti di commercio (o di conflitto) erano regolati dal passo del somaro, unico animale idoneo al trasporto su quei sentieri impervi. Sarà per una ereditaria visione geopolitica che ancora oggi dopo tremila anni i nostri governanti si sentano obbligati al passo politico del somaro ? Eppure, quando sentiamo parlare di sbarchi o conquiste di mercati, di teste di ponte commerciali, di guerre economiche, rappresaglie commerciali o doganali, ascoltiamo un linguaggio che ricorda quello dei mercanti italiani delle repubbliche marinare, che preferivano certo, anche perché più sicuri e redditizi, i pacifici scambi, ma erano soliti premunirsi in tutti i modi da angherie di piccoli o grandi ras, e dalla improvvisa comparsa di pirati. Come, per esempio, imbarcando sulle loro galere un adeguato numero di fanti del mare.

E' per tutte queste ragioni che gli italiani debbono sapere di avere sempre avuto e di avere anche oggi una gloriosa Fanteria di Marina, e ne incomincino a conoscere la Storia.

Milano 1997

La storia delle origini della fanteria di marina italiana non si identifica solo con quella degli stati dei Savoia, ed è certamente anche molto più antica, poiché operazioni anfibie a vasto raggio nel Mediterraneo erano state compiute già nel Medioevo dalle repubbliche marinare. Inoltre i "fanti da mar", detti anche "scapoli" o "uomini di spada", erano da sempre stati presenti sulle galee veneziane, e il loro equivalente non poteva mancare su quelle genovesi, pontifice o toscane. Sempre poi che non vogliamo risalire ai "milites classarii romani o agli "epitabai" greci. Ma la materia sarebbe così vasta e di non facile documentazione che mi è sembrato meglio affrontarla limitatamente ad un periodo definito e ad un solo stato italiano, le cui strutture militari sono però all'origine di quelle che divennero successivamente le Forze Armate del Regno d'Italia, portando alla fusione dei Corpi Militari esistenti negli stati che si erano riuniti per plebiscito dei popoli e per la forza delle armi, come fu appunto il caso della Fanteria di Marina napoletana, che nel 1861 si fuse con quella del Regno di Sardegna nel reggimento "Fanteria Real Marina", sciolto poi nel 1878 (ma questa è un'altra storia).

Naturalmente la storia di questo corpo scelto è tutt'uno con quella della marina e degli stati sabaudi, infatti la F.M. sarda non raggiunse mai le dimensioni (sia pure in proporzione) di quella attuale degli USA, né si trovò impegnata da sola in operazioni anfibie di grande portata, anche se spesso sue sezioni imbarcate parteciparono alle azioni della flotta, e singoli reparti operarNave Re d'Italia, forse confusa con la gemella Re di Portogallo, impossibile determinare con esattezza, partecipò alla battaglia di Lissa ( 20/07/1866). Clik licenza ono nelle battaglie del Risorgimento a fianco dell'esercito. Pertanto per non dimenticare episodi che videro impegnati i suoi uomini il nostro racconto non si limiterà ai singoli episodi che la videro protagonista, ma la seguirà in tutta la sua ultra secolare avventura, non tralasciando i risvolti politici che ne condizionarono il divenire. In effetti le continue trasformazioni di organizzazione, compiti, organici, che soprattutto negli ultimi duecento anni ne ha caratterizzato l'evoluzione, sono a mio giudizio dovute non tanto a capricci di ministri o monarchi, o alle gelosie di altri corpi militari, anche se gli uni e le altre non mancarono, ma a diversità della visione geopolitica (o alla mancanza di ogni visione geopolitica, più spesso) con cui i responsabili militari si rappresentavano i rapporti dello stato sabaudo con gli altri stati italiani e il mondo Mediterraneo, in cui con l'andare dei secoli si erano trovati a rappresentare una parte non solo secondaria.

Le origini

La fanteria di marina sabauda costituiva un corpo ad elevata preparazione professionale, addestrato alla manovra delle navi come all'uso delle artiglierie navali e terrestri, oltre che alla manovra di fanteria. Era quindi formato da uomini preparati ad affrontare problemi anche complessi, e in situazioni in cui potevano non esserci comandi superiori a cui chiedere ordini, cosa ben frequente durante operazioni di sbarco. Dotati di un elevato coefficiente bellico, ma anche della capacità di pensare, che li portava a cercare nuove idee e nuove soluzioni, e non solo sul piano professionale. Questo si manifestò in più occasioni, nel 1812 come nel 1821 come nel 1943, in scelte che erano motivate da una assoluta fedeltà all'idea di Patria, più che alle persone che ne reggevano le istituzioni.

Ma procediamo con ordine. Un primo uso di imbarcazioni armate da parte dei Savoia può essere fatto risalire al 1287, quando maestri d'ascia genovesi costruirono per loro conto una piccola flotta sul lago di Lemano. Probabilmente il loro uso era soprattutto quello di trasportare truppe di fanteria attraverso il lago e di difesa o attacco di porti e fortificazioni lacustri, e in realtà non si può parlare di una fanteria imbarcata, ma solo di operazioni anfibie. In seguito, estendendosi per guerre e matrimoni i domini sabaudi verso il Piemonte e la contea di Nizza, con l'acquisizione di questa città venne dato inizio già nel 1431 alla costruzione di galere, che ragionevolmente non potevano essere equipaggiate diversamente da quelle delle altre flotte dell'epoca, e quindi dobbiamo ritenere sicuramente fornite oltre che di rematori e di marinai, anche di soldati stabilmente presenti a bordo, con compiti chiaramente differenziati. Infatti è documentato che, per lo meno dal 1560 in poi, tali navi imbarcavano equipaggi tra i 130 ed i 400 uomini, che sulle galere più grandi erano costituiti da "ufficiali di poppa" (a cui si univano un certo numero di "cavalieri", ossia di nobili volontari), "gente di capo" corrispondenti ai nostri sottufficiali e "capi", un centinaio di "soldati imbarcati" (25 sulle galere più piccole o mezze galere), armati ognuno di due archibugi, che prestavano anche servizio ai pezzi in caccia ed alle carronate, e da circa 250 rematori. Nel 1571 Emanuele Filiberto riunisce le cariche di Gran Maestro degli ordini cavallereschi di San Maurizio e di San Lazzaro, e crea l'Ordine Sabaudo dei SS Maurizio e Lazzaro come ordine militare votato alla guerra contro i turchi, e quindi i cavalieri e i soldati dell'Ordine partecipavano soprattutto alle operazioni navali nel Mediterraneo.

1714: nasce il "Battaglione delle Galere" , tra gli antenati anche Emilio di Roccanera, detto il Corsaro Nero.

Ma la costituzione ufficiale di reparti di soldati addetti al servizio navale ed alla difesa dei forti costieri avviene solo dopo che nel 1713 Vittorio Amedeo II° ottiene il titolo di Re ed il possesso della Sicilia. Nel 1714 viene costituito il "Corpo della Marina", di cui fa parte un "Battaglione delle Galere" su quattro compagnie divise tra le diverse navi, più un certo numero di compagnie per la difesa costiera. Gli effettivi erano arruolati ed istruiti a Nizza, presso il centro di reclutamento del reggimento "La Marina", ricostituito dal 1701 e comandato dal colonnello Lascaris, reggimento che viene pure associato al Corpo della Marina. In realtà in precedenza ben due reggimenti sabaudi, arruolati nei possedimenti tra Nizza e Oneglia, avevano portato tale nome (uno fondato nel 1672, l'altro nel 1683), ma erano stati impiegati esclusivamente in operazioni terrestri in Francia e nei Paesi Bassi, dove erano praticamente scomparsi nelle vicissitudini di quelle guerre. Da tali fatti trasse lo spunto il romanziere Emilio Salgari per creare il personaggio di Emilio di Roccanera, signore di Ventimiglia, detto il Corsaro Nero. Secondo il romanziere questi, ufficiale del reggimento "La Marina" come i tre fratelli, si era fatto corsaro per vendicarsi del traditore Wan Guld, che nel corso della guerra tra francesi ed olandesi contro gli spagnoli (guerra in cui i piemontesi erano alleati della Francia), nel 1686 aveva consegnato alla Spagna un forte sulla Schelda difeso appunto dal reggimento "La Marina", in cambio del posto di governatore di Maracaibo, provocando con la sua defezione la morte di buona parte dei soldati del reggimento e del più anziano dei Ventamiglia, ucciso di sua mano dal Wan Guld di cui aveva scoperto il tradimento. Non sono in grado di dirvi se all'origine del romanzo vi sia un minimo di verità storica per quanto attiene alle avventure di quei soldati piemontesi nei Paesi Bassi, ma è sicuro che quei reggimenti vennero praticamente distrutti nel corso di quelle campagne.

Nel 1717 con Regio Assento viene definito il Regolamento Militare per i soldati imbarcati e per il servizio costiero, e già nel 1718 cinque compagnie del reggimento Marina partecipano vittoriosamente alla difesa di Palermo contro gli spagnoli.

Dalla Sicilia alla Sardegna

Nel 1722 Casa Savoia scambia la Sicilia con la Sardegna (non risulta che qualcuno abbia chiesto il parere degli abitanti delle due isole) e in questa si trasferiscono anche le basi avanzate della flotta piemontese, impegnata nella lotta contro i corsari barbareschi, il contrabbando con la Corsica, le mire di Genova, della Francia e anche della flotta inglese, che, non disponendo ancora della base di Malta, era sempre alla ricerca di una sede sicura nel Mediterraneo. La base principale della flotta e della fanteria di marina sabaude restava però sempre a Nizza. Nel 1730 venne adottata per la prima volta sia dalle Compagnie delle Galere che dai soldati del reggimento Marina l'uniforme con la giacca azzurra, e i paramani e le bordure in rosso. La differenza principale era nell'armamento, che per gli uomini imbarcati oltre al fucile a pietra focaia era costituito dalla spada diritta, mentre per gli altri era in dotazione la baionetta.

Nel 1775 avendo la marina sarda acquistato in Inghilterra due fregate, poiché ormai anche nel Mediterraneo ci si era convinti della superiorità della marina a vela su quella a remi, viene cambiato il nome ai reparti imbarcati in quello di "Battaglione delle Fregate", poi nel 1782 in quello di "Compagnie leggere di Marina", ma nel 1786 queste sono reincorporate nel reggimento "La Marina" su due battaglioni, uno imbarcato ed uno per il servizio nelle fortificazioni costiere.

Dalle guerre contro la Francia della rivoluzione alla Restaurazione.

Nel periodo delle guerre del Piemonte con la Francia della rivoluzione la storia della fanteria di marina si confonde con quella dell'esercito piemontese. Perdute infatti le piazze di Nizza e di Villafranca per la senilità del comandante in capo de Courten, gli equipaggi vennero sbarcati, e marinai e fanti di marina parteciparono alle campagne delle Alpi marittime. Dopo il 1799 i Savoia furono costretti ad abbandonare il Piemonte ed a rifugiarsi in Sardegna, lasciando liberi dal giuramento quanti avevano servito sotto le loro bandiere. E molti infatti si arruolarono nelle armate napoleoniche o, i più ostili alla rivoluzione, in quelle russe, o austriache. Quanti invece raggiunsero la Sardegna, con le poche piccole navi rimaste alla flotta sarda (due mezze galere e alcuni lancioni armati), continuarono nell' opera di difesa costiera dell'isola. Difesa che, come si legge dalle cronache dell'epoca, non era priva di rischi e di eroismi, e comportò un non piccolo numero di caduti, tra cui un Ignazio ed un Luigi Mameli, fratelli del nonno di Goffredo.

La difesa dell'Arcipelago dei Caruggi.

Il fatto più noto a cui parteciparono i cannonieri di marina fu la difesa dell'isola de La Maddalena e di quello che allora si chiamava l'arcipelago dei Carruggi, per gli stretti canali che dividevano le isole, simili ai carruggi della città di Genova. L'attacco venne effettuato nel 1793 dai giacobini di Corsica, comandati da un tenente di artiglieria dell'esercito francese non ancora famoso, ma il cui nome era Napoleone Buonaparte. In questa azione si distinsero il 1° nocchiere Domenico Millelire, il fratello Agostino, primo pilota, e il capo cannoniere Mauran. Portati tre cannoni su una piccola altura batterono con tale precisione i reparti del Buonaparte e le sue artiglierie che avevano occupato l'isola di Caprera, che i soldati della rivoluzione abbandonarono comandante e armi e se ne tornarono in Corsica, e lo stesso Napoleone si salvò a stento. Domenico Millelire fu decorato di medaglia d'oro e, promosso ufficiale, finì la carriera come comandante del porto de La Maddalena. A Milano una delle strade davanti alla Caserma Santa Barbara, un tempo sede delle Voloire, ha ancora oggi il suo nome.

Lo scontro di Capo Malfatano.

Meno noto è invece il combattimento di Capo Malfatano, a cui i fanti di marina parteciparono con gli uomini imbarcati sulle mezze galere "Falco" e "Aquila", comandate dai C.V. Gaetano De May e Vittorio Porcile. La piccola squadra sarda, di cui faceva parte anche il lancione "S. Efisio" al comando del 1° nocchiere La Violetta (secondo il Prasca nome di battaglia di un marinaio originario de La Maddalena, appartenente alla famiglia Zonza), venne informata alla fine di luglio del 1811 che una flottiglia di corsari tunisini era stata avvistata vicino a Capo Teulada. Usciti in mare col proposito di tagliare la ritirata ai corsari, li raggiunsero nei pressi di Capo Malfatano, a sudovest di Cagliari, poco oltre Capo Spartivento, nella mattinata del 28 luglio. Dopo un breve scambio di cannonate i tre navigli tunisini, un felucone, una galeotta ed un legno minore, che avevano tentato di allontanarsi rimorchiando una tartana sarda da poco catturata, vedendosi impedita la fuga verso il largo presero l'offensiva. Il felucone puntò con la prua sul fianco della mezza galera "Aquila" per speronarla o almeno fracassarne i remi, ma il Porcile, esperto in tali combattimenti, evitò l'urto e piantò a sua volta la prua dell"Aquila" nel fianco dell'avversario. Incastrate ormai le navi una nell'altra, si iniziò una lotta feroce all'arma bianca nelle quali i barbareschi era rinomati e temuti. Tale fu infatti la loro furia che in un primo tempo conquistarono il castello di prua della mezza galera e costrinsero i sardi ad una disperata difesa. Ma il Porcile, benché ferito, li rianima, li riporta all'attacco, la nave è riconquistata, si assale la nave barbaresca che, morto il comandante, caduti molti componenti l'equipaggio, si arrende. Conquistato il felucone, la mezza galera può accorrere in aiuto della gemella "Falco", altrettanto duramente impegnata contro la galeotta beicale, ed anche questa viene catturata. Tutta l'azione era durata quattro ore, e modesti erano stati i danni alle strutture delle navi, ma molti i caduti, e moltissimi i feriti, tra i quali i due comandanti De May e Porcile. Recuperata e restituita la tartana che i corsari avevano predato, la squadra sarda rientrò a Cagliari portandosi a rimorchio le due navi catturate, armate di 17 cannoni, e duecento marinai fatti prigionieri, in seguito scambiati con sudditi sardi prigionieri dei barbareschi. Numerose furono le pensioni assegnate, le promozioni, le medaglie concesse a quanti avevano partecipato all'azione vittoriosa. Tra le tante ricorderò solo la promozione da "allievo" a "guardiamarina di seconda classe" ottenuta appunto in quell'occasione da Giorgio Mameli, futuro padre di Goffredo, imbarcato sul "Falco".

Ma la fanteria di marina guarda al futuro.

Negli stessi anni le vicissitudini organizzative dei reparti di fanteria di marina continuarono, Vennero sciolti, rifatti, cambiati di nome, ricostituiti. Nel 1812 in particolare vi fu a Cagliari un movimento di persone "tra le più colte e stimate" e anche vicine alla corte, che, indotte dalla grave situazione economica e dalla carestia che infieriva nell'isola, nonché da un sordo ma diffuso malcontento non contro la persona del re, ma contro gli alti funzionari non regionali, volevano ottenere per la Sardegna quelle stesse franchigie costituzionali che gli insorti siciliani avevano ottenuto dal re Ferdinando di Borbone, anche con l'appoggio degli inglesi che, fieri nemici della Francia rivoluzionaria, non erano affatto contrari alla diffusione invece di sistemi istituzionali simili al loro, in cui la monarchia assoluta aveva dovuto cedere molti dei suoi poteri al Parlamento. Alla cospirazione avevano aderito anche soldati e sottufficiali del Battaglione della Marina, e tale reparto fu ancora una volta sciolto e successivamente ricostituito,

Nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, il reggimento "La Marina" prese il nome di "Cuneo", e divenne un normale reggimento di fanteria. Al suo posto vennero costituiti nel 1815, soprattutto per volontà dell'ammiraglio Giorgio Andrea Des Geneys, due reggimenti di "Reale Artiglieria di Marina", il primo costituito da gabbieri, il secondo da fanti. Vi erano quindi marinai artiglieri che servivano per le manovre della nave come per quella delle bocche da fuoco, e marinai soldati che servivano prevalentemente come truppa da sbarco, e sussidiariamente per le artiglierie e le manovre della nave. Avevano inoltre la responsabilità della difesa delle fortificazioni costiere e dell'Arsenale di Genova, e fornivano il personale tecnico per questo servizio. Questo reggimento ricevette il 14 novembre del 1815 la bandiera, come in uso per tutte le armi di linea. La bandiera originale esiste ancora, ed è conservata in un cofano al Museo Navale di Venezia. In questi reparti, come nella nuova marina che il Des Geneys via via costituì, confluirono molti ufficiali liguri e piemontesi che nel periodo napoleonico avevano servito nella flotta e nelle armate francesi o del regno d'Italia. E così ai Des Geneys, Villarey, ai de May, ai Mameli, si unirono un Sivori, già tenente di vascello della marina francese, ma anche corsaro con Bavastro, un Luigi Serra, un Di Negro, uno Spinola, che avevano fatto carriera nelle armate e sulle navi di Napoleone, ma erano stati scelti uno per uno dal Des Geneys esclusivamente per le loro qualità di marinai e di soldati.

Gli Artiglieri di Marina, non avevano la precedenza sugli altri reparti della marina, ma la avevano sui reggimenti di fanteria costituiti dopo il 1713. La truppa riceveva un addestramento accurato, sia nella manovra delle imbarcazioni che nell'uso delle artiglierie navali e terrestri, oltre che delle armi individuali e nella manovra di fanteria. Avevano inoltre un trattamento privilegiato rispetto ai marinai nel vestiario e nel soldo. Il saper leggere e scrivere era considerato indispensabile, e la valutazione delle basi colturali oltre che delle capacità militari era obbligatoria prima di ogni promozione. Gli ufficiali potevano provenire sia dal corpo degli ufficiali di vascello che dall'artiglieria o fanteria, i gradi erano praticamente equiparati a tutti gli effetti, ma il comando delle navi in caso di assenza di ufficiali di vascello poteva essere preso solo da ufficiali che avessero in precedenza ricoperto tale qualifica, altrimenti sarebbe spettato ai piloti o ad altri sottufficiali.

1821 : prima rivoluzione italiana.

Il 2° reggimento in particolare era stato composto soprattutto da reduci delle guerre napoleoniche che mal tolleravano il regime assolutistico, mite nei fatti ma ottuso, della restaurazione sabauda. Vi erano state create logge carbonare segrete, e vi spirava un vento di liberalismo e di adesione ai movimenti per la costituzione che trovavano spazio nell'ambiente civile genovese, sia tra gli aristocratici che tra il popolo, memori della precedente indipendenza della Repubblica di Genova, e aveva cercato in tutti i modi di opporsi all'annessione al Piemonte decisa dalle Potenze. Inoltre la vicinanza con la Francia delle sedi di guarnigione di Nizza e Villafranca, facilitava il passaggio delle idee liberali che agitavano tale paese e trovavano facile presa nel corpo dei sottufficiali, tutti di provenienza borghese, la cui carriera era bloccata dal fatto che i gradi superiori erano riservati ai nobili. Quando il principe di Carignano, Carlo Alberto, erede designato al trono, divenne Gran Maestro dell'Artiglieria, a turno anche gli ufficiali del 2° reggimento provenienti dalla marina sarda prestarono servizio presso il comando del principe, il quale non esitava a mettere in ridicolo le assurdità dell'antiquato governo di Torino, esprimendo speranze di rinnovamento. Anche i discendenti di antiche famiglie feudali come il San Marzano. figlio del ministro degli Esteri, il Moffa di Lisio, il principe Pozzo della Cisterna, il Morozzo di S. Michele, il Santarosa, i Provana, che costituivano il suo stato maggiore, sostenevano le idee di libertà e l' opposizione al regime assolutistico, così come anche fra coloro che potevano essere considerati dei fedeli del re, come l'ammiraglio Des Geneys, le aspirazioni ad una indipendenza dell'Italia dal dominio diretto o indiretto dell'Austria, e ad una qualche forma di unità nazionale erano considerati con favore. In questo ambiente era naturale che il desiderio di novità si facesse strada a tutti i livelli, non solo tra soldati e sottufficiali ma anche tra gli ufficiali di provata fedeltà, rinforzato inoltre dallo spettacolo delle lotte tra le camarille di Corte, le cui conseguenze si ripercuotevano dannosamente su esercito e marina.

Vi erano quindi tutte le premesse per degli importanti cambiamenti che, se maturati con il passaggio delle generazioni ed il trasferimento del potere regio per naturale successione a Carlo Alberto, avrebbero forse evitato molte delle successive tragedie della storia italiana.

1821 : confusione totale a tutti i livelli, ma monarchici o repubblicani, conservatori o democratici, i fanti del mare sono pronti alla guerra all'Austria.

Ma i fatti di Spagna e di Napoli del 1820 spinsero anche i costituzionalisti piemontesi a muoversi, e venne data origine ad una tragica commedia di equivoci, dire e disdire, fingere di non capirsi, giuramenti di lealtà e fiducia reciproca con riserve non espresse di tutte le parti, rivolte annullate per decisione unanime dei capi, che poi scoppiavano perché ci si era dimenticati di avvisare un qualche capitano di cavalleria nel suo distaccamento isolato. Insomma, confusione totale a tutti i livelli. Addirittura il 6 aprile, quando già Carlo Felice, salito al trono per l'improvvisa abdicazione di Vittorio Emanuele I°, aveva proclamato il suo rifiuto della Costituzione, invocato l'intervento austriaco, e accusato di tradimento e fellonia i sostenitori della rivoluzione liberale, la Giunta Provvisoria, cioè appunto il governo rivoluzionario, emana ai cittadini di Torino un proclama celebrando "...il giorno faustissimo della nascita del Re Carlo Felice..." lo stesso che pochi giorni dopo li faceva condannare a morte. E il Santarosa, riferendosi a Vittorio Emanuele I°, scriveva "...come potrà non perdonarmi del fatto che io lo voglia fare Re di 6 milioni di italiani?". Chiunque vada a rileggersi le memorie dei protagonisti dei moti piemontesi non può non riconoscervi gli stessi comportamenti di politici e militari che furono poi causa delle sconfitte di Novara, Custoza, Lissa e dell' 8 settembre 1943, ma vi trova anche quegli episodi di dignità e grandezza morale di cui singoli reparti italiani se ben comandati hanno sempre saputo dare dimostrazione. E fu appunto un battaglione di Cannonieri di Marina che ne fu protagonista durante quella che a torto viene chiamata battaglia di Novara, perché in realtà battaglia non vi fu. Ma andiamo con ordine. Quando nel marzo del 1821 scoppiarono a Torino i moti di piazza per ottenere la costituzione, anche a Genova la popolazione vi si associò, e i reparti militari, complessivamente favorevoli, rimasero consegnati nelle caserme. Successivamente Vittorio Emanuele I° abdicò piuttosto che concedere la costituzione, e lasciò la reggenza a Carlo Alberto, essendo il fratello Carlo Felice, erede al trono, assente dal Regno. La situazione rimase comunque calma, e le autorità come i soldati ed il popolo accettarono di buon grado la proclamazione di una costituzione liberale (sulla quale comunque vi era una gran confusione di idee) e si prepararono a quella che sembrava la naturale conclusione di tale scelta, cioè una guerra con l'Austria. Questa infatti si comportava in Italia come la garante della restaurazione del diritto divino dei sovrani, e già aveva inviato un esercito contro i costituzionalisti di Napoli. I problemi insorsero quando Carlo Felice, rimanendo nel territorio del Ducato di Modena, quindi sotto il controllo austriaco, rifiutò qualsiasi concessione di costituzioni, ordinò a Carlo Alberto di abbandonare Torino e di raggiungere a Novara il generale La Tour, il quale, sempre su ordine di Carlo Felice, vi stava riunendo i reparti piemontesi più fedeli. Cioè quei militari che anteponevano a tutto il giuramento di fedeltà prestato al re, e avrebbero accettato la costituzione liberale solo per ordine del monarca assoluto. La notizia si diffuse immediatamente anche se con le versioni più strane, tra cui la principale era che Carlo Felice in realtà fosse prigioniero degli austriaci, e che i suoi ordini non fossero liberamente emanati, per cui per i militari non vi era obbligo morale di rispettarli. I gruppi più estremisti insorsero a Torino e Genova, mentre ad Alessandria un comitato insurrezionale formato prevalentemente da militari prese il potere. Carlo Alberto, che aveva allora solo ventidue anni, aumentò la confusione, perché da una parte obbedì agli ordini del nuovo re, ma dall'altra prima di lasciare Torino nominò Segretario alla Guerra Santorre di Santarosa, sostenitore della costituzione e della guerra all'Austria. A Genova la fanteria di marina contribuì a mantenere l'ordine in un primo tempo, difendendo l'Arsenale ed impedendo agli insorti di impadronirsi delle casse dell'Ammiragliato, ma nella confusione di notizie contrastanti e di accuse reciproche di tradimento che si scagliavano i diversi gruppi non era facile trovare la via giusta. Deposto anche con la violenza della piazza il Governatore di Genova, ammiraglio Des Geneys, favorevole alla guerra all'Austria ed entro certi limiti ad una riforma costituzionale, ma più guardando al modello inglese che a quello spagnolo adottato a Torino, venne nominato, su indicazione ed esplicita approvazione dello stesso (!), un governo provvisorio che, tra le prime cose decise, inviò un battaglione di Artiglieri di Marina a rinforzo della guarnigione di Alessandria, la quale ormai attendeva l'attacco degli austriaci che si ammassavano oltre il Ticino. Ai primi di aprile l'esercito costituzionale, forte di 2500 uomini di fanteria, mille cavalleggeri, una batteria e del battaglione di F.M., marciò su Novara, per impedire l'unione di 15.000 austriaci con le truppe del generale La Tour, costituite da circa settemila fanti e un migliaio di cavalieri. La marcia avvenne in modo disordinato e nessuno aveva carte topografiche della zona dove erano diretti, ma in complesso i soldati erano di buona lena anche perché veniva sempre loro ripetuto che non ci sarebbe stato alcuno scontro con gli altri piemontesi, in quanto non appena fossero giunti davanti a Novara gli uomini del La Tour si sarebbero uniti a loro contro gli invasori austriaci. Ma quando giunsero sotto le mura della città e si videro invece attaccati con risolutezza da quelli che pensavano fossero loro alleati, i soldati, non preparati psicologicamente a battersi contro altri italiani, non ressero, e l'esercito si disperse nel modo più vergognoso. Gli unici che si batterono bene furono i fanti di marina comandati dal capitano Francesco Mameli, i quali, schierati al ponte dell'Agogna, all'estrema ala sinistra, respinsero gli attacchi degli austro piemontesi fin dentro le mura, e quindi si ritirarono ordinatamente fino ad Alessandria.

Carlo Felice, convinto di essere re per diritto divino.

Il nuovo re Carlo Felice, ultimo dei Savoia del ramo principale, era un uomo anziano, non educato da giovane per governare, e poco propenso alle responsabilità del regno. Deluso dalla mancanza di eredi maschi suoi e dei fratelli, aveva accettato di riconoscere erede al trono Carlo Alberto dei Savoia Carignano, ramo originatosi alla fine del 1500, nonostante l'ambiente liberale in cui era stato educato nei suoi primi anni, solo perché l'abolizione della legge salica avrebbe portato al trono il duca Francesco IV di Modena, che aveva sposato la figlia di Vittorio Emanuele, ma era anche un Asburgo, di quella famiglia che da duecento anni insidiava le province occidentali del Piemonte. Le esperienze fatte come Viceré di Sardegna e poi nelle diverse cariche ricoperte lo avevano portato all'amara conclusione che "...tutti coloro che sanno qualcosa sono corrotti dalle idee liberali, e le persone per bene non servono a nulla perché troppo ignoranti." Ma da una constatazione del genere non sapeva trarre altra conseguenza che di persistere nella sua difesa dell'Altare e del Trono, convinto certo che dopo di lui tutto sarebbe precipitato, ma anche altrettanto sinceramente convinto che quello fosse il suo dovere.

E così era altrettanto convinto che fosse suo dovere il punire nel modo più severo non solo la sedizione militare, ma anche qualsiasi idea contraria alla monarchia assoluta e favorevole a patti costituzionali anche i più moderati. "Nessuna indulgenza per le cose passate, nessuna speranza in meglio per l'avvenire" è il programma con cui si presenta ai piemontesi. Per cui gli ordini impartiti alle commissioni incaricate di vagliare il comportamento di militari e funzionari, sacerdoti e civili. furono severissimi, e le condanne a morte furono quasi duecento, moltissime le condanne alla prigione e alla decadenza dai gradi e dagli incarichi. Ma in effetti solo due condanne a morte vennero eseguite, e solo perché per disgrazia i due ufficiali non avevano potuto o non avevano voluto espatriare. In realtà sia il generale La Tour comandante dei lealisti, che l'ammiraglio Des Geneys, ritornato governatore di Genova, avevano fatto di tutto per convincere i compromessi con la rivoluzione ad espatriare rapidamente, aiutandoli anche economicamente sia con fondi pubblici che personali. Questa loro scelta di mettersi in condizione di non dover attuare gli ordini severissimi del sovrano, in parte era certamente dovuta ai legami di parentela che legavano i capi della rivolta con la gran parte della casta dirigente piemontese. Ma è anche probabile che si ricordassero dell'invito rivolto dal "reazionario" Joseph de Maistre a Vittorio Emanuele I° a mettersi a capo della rivoluzione italiana utilizzando uomini devoti alla causa italiana anche a pregiudizio dell'aristocrazia sabauda, poiché "lo spirito italiano è nato dalla rivoluzione", e volessero sinceramente salvare per il futuro del paese uomini generosi che avevano soprattutto sbagliato nella scelta dei tempi e dei modi. Ed è sicuro inoltre che la fedeltà personale a Carlo Felice non impediva loro di vedere l'arretratezza e l'insostenibilità delle sue scelte politiche, e come queste non potessero andare oltre il tempo di vita del sovrano. Oltre alle condanne per le "colpe" individuali, molti provvedimenti vennero presi per punire la sedizione collettiva di tanti reparti, e molti reggimenti furono radiati, Tra questi il 2° reggimento di Artiglieria di Marina. Il capitano Francesco Mameli dovette espatriare come molti altri ufficiali e gregari del reparto. Successivamente, per decisione della Commissione Straordinaria istituita il 27 aprile 1821 dal Generale La Tour, Luogotenente Generale di S.M. nei regi stati, nella seduta del 13 giugno venne "spogliato del suo grado e degli Ordini Regi di cui sarebbe fregiato, e dichiarato inabile a qualunque servizio, per avere portato le armi coi ribelli contro l'armata regia, e per le sue opinioni notoriamente avverse al Governo legittimo, perdonandogli però la detenzione per avere egli, in Genova, contribuito efficacemente a salvare dal saccheggio il palazzo del Governatore e la Tesoreria di Marina".

Da "Reggimento Artiglieria di Marina" a "Battaglione Real Navi". Il nome e l'organico cambiano, ma lo spirito resta immutato.

Ma il 22 dicembre dello stesso anno, per volontà del Des Geneys e per evidenti necessità del servizio , viene ricostituito un "Battaglione Real Navi", per le compagnie da sbarco e per i servizi accessori di bordo, oltre che per le guarnigioni dei dipartimenti marittimi di Genova, Villafranca e Cagliari, nonché nelle isole di Capraia e della Maddalena.

Questi soldati del "Real Navi" parteciparono alle campagne navali della flotta sia nel Mediterraneo orientale che in quello occidentale, che videro impegnata le navi sarde sia in operazioni di repressione della pirateria che di rappresentanza politico militare. Il "far vedere la bandiera" aveva anche allora un grosso peso nel risolvere situazioni diplomatiche e commerciali intricate, soprattutto se sotto lo sventolio della bandiera si facevano vedere file di cannoni. La crisi in cui era entrato l'impero ottomano aveva reso semi indipendenti una serie di piccoli principati più o meno legittimi, che cercavano nella pirateria e nel ricatto al commercio marittimo quelle fonti di finanziamento che non erano in grado di procurarsi in paesi che da decenni vedevano il continuo declino di agricoltura ed industria. Inoltre la confusione creata nel Mediterraneo orientale dalla rivolta della Grecia aveva lasciato spazi al sorgere di una pirateria locale che minacciava i commerci attraversanti l'Egeo, e la flotta mercantile del Regno di Sardegna era appunto ai primi posti nel commercio di grano russo, e la quarta al mondo per presenze nel porto di Istanbul, anche per antica tradizione dei mercanti genovesi.

 

28 settembre 1825 : attacco a Tripoli.

La presenza di un corpo da sbarco era indispensabile per aumentare la credibilità della minaccia, e in effetti l'unica operazione bellica in cui marinai e soldati del Real Navi si trovarono impegnati veramente fu quella di Tripoli del 1825, quando la flotta sarda al comando del C.V. Francesco Sivori fu inviata a risolvere una vertenza insorta con quel bey per una questione di diritti consolari. Il governo libico pretendeva infatti di imporre una propria interpretazione dei precedenti trattati, e minacciava anzi di riprendere la guerra di corsa contro il naviglio mercantile e le coste del Regno di Sardegna. Tale minaccia venne vista dal re Carlo Felice come un insulto diretto alla sua sovranità, e, memore anche delle sofferenze patite dalle popolazioni costiere sarde anche in anni recenti per opera dei corsari barbareschi, di cui era stato diretto testimone quando aveva ricoperto la carica di Vicerè di quell'isola, autorizzò l'operazione navale che venne organizzata dall'ammiraglio Des Geneys in concerto con i ministeri degli esteri e della marina. Il Sivori si presentò dunque dinanzi a Tripoli con le fregate "Commercio di Genova" e "Maria Cristina", la corvetta "Tritone" e il brigantino "Nereide". Un tentativo di comporre pacificamente il dissidio fallì, perché le due parti rimasero incrollabilmente sulle loro posizioni, e il Sivori diede un ultimatum di 4 ore ai rappresentanti del pascià Yussuf Caramanli. Trascorso tale breve tempo, non potendo operare con la flotta perché le condizioni del mare e del vento di nord ovest non consentivano di avvicinarsi senza pericolo alla costa, durante la notte, duecentocinquanta tra marinai e fanti di marina penetrarono su 10 imbarcazioni comandate dal T.V. Giorgio Mameli nel porto fortificato. Benché scoperti durante l'avvicinamento nella baia e fatti segno ad un intenso fuco di artiglieria dai forti, continuarono nell'attacco, dando alle fiamme in un temerario assalto le imbarcazioni da guerra del Bey, e ritirandosi quindi indenni. L'operazione fu sufficiente alla pronta ratifica di un accordo.

Dal 1831 al 1847 : si prepara la conquista della Tunisia, ma Francia e Inghilterra non lo permettono.

Alla morte del re Carlo Felice gli successe Carlo Alberto, che introdusse l'uso obbligatorio della lingua italiana nei documenti ufficiali. In precedenza si scriveva indifferentemente in italiano o in francese, ma l'esame di quegli scritti dimostra che, se lo stato era assolutista, vi regnava però la massima libertà in tema di ortografia, grammatica e sintassi, ampiamente maltrattate con equanime disinvoltura nelle due lingue a tutti i livelli gerarchici, forse per rispetto dell'esempio dato in materia proprio dalla famiglia reale.

A parte questa significativa rivoluzione, che indicava come i Savoia optassero definitivamente per essere i sovrani di uno stato italiano, i primi anni di regno di Carlo Alberto furono caratterizzati da un interesse sempre maggiore dello stato sardo per la politica mediterranea, a cui lo indirizzava la necessità di appoggiare lo sviluppo delle attività mercantili che da Genova si spingevano fino al Mar Nero e all'America Meridionale. Gli studi condotti in particolare dal Mameli su incarico del Des Geneys riguardo ai flussi mercantili da e per i porti liguri, portarono tra l'altro ad un ampliamento degli spazi a disposizione del traffico commerciale nel porto di Genova, ottenuto spostando l'Arsenale a La Spezia . Questo per di più consentiva di istituire una base Gli Italiani sbarcano a Tripoli 1911. Clik licenzamilitare in un punto strategico che permetteva il controllo di quanto avvenisse nell'Italia Centrale. Per ben due volte (nel 1833 e nel 1844) lo stato sardo fu sul punto di occupare la Tunisia, a difesa degli interessi italiani in quella terra, interessi reali se si pensa che ancora nel 1939 oltre i due terzi degli europei presenti in quel paese erano cittadini italiani o discendenti di italiani. Tra il 1830 e il 1833 era stata preparata una flottiglia di barche cannoniere per forzare l'ingresso al porto di La Goletta vicino a Tunisi, era stata calcolata la necessità di un corpo di spedizione di 15.000 uomini per la prima fase di operazioni nelle città della costa, da aumentare a 30.000 per un controllo completo del paese. Piani particolareggiati di sbarco erano stati preparati in collaborazione tra il comando della Marina e l'ambasciata sarda a Tunisi, ed approvati dal ministro della Guerra e da Carlo Alberto che sperava, con una fortunata operazione coloniale, di far dimenticare il 1821, e di proporsi come difensore di interessi non solo liguri e sardi, ma anche degli altri stati italiani.. Ma sia nel 1833 che nel 1844 la Francia (che nel 1830 aveva occupato l'Algeria e voleva ripetere l'operazione a Tunisi) e l'Inghilterra, che non voleva che una sola potenza controllasse il canale tra Sardegna e Tunisia, creando un pericolo per Malta, si opposero. E così il Real Navi non ebbe modo di agire secondo i principi che ne avevano dettato la creazione.

Ristrutturazione degli organici, nuove uniformi e nuove armi.

Nel 1840 gli organici vennero nuovamente rivoluzionati. soppresse le Compagnie Cannonieri di Mare, vennero organizzati un Battaglione Real Navi, comandato da un colonnello con uno stato maggiore di trenta tra ufficiali e sottufficiali, e da 8 compagnie, costituite ognuna da 113 uomini e tre ufficiali. L'armamento individuale era costituito da carabine a capsula, che tra il 1825 e il 1835 avevano sostituito le vecchie armi a pietra focaia, e da sciabole. L'uniforme, prescritta dai "Regolamenti Militari della Marina di S. M. il re di Sardegna" approvati con Regie Patenti 6 febbraio 1830, era così descritta :

Abito, Goletta dell'abito e Mostre delle maniche turchino con pistagna* cremisi;

Mostre al petto cremisi

Fodera turchina con pistagna cremisi

Scarzelle in lungo con pistagne cremisi

Bottoni in oro con àncora secondo il modello

Sakò** con àncora secondo il modello

Pantaloni di panno

Spalline, armamento e corami secondo il modello.

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* striscia che orna il risvolto del colletto, delle tasche o delle maniche

** copricapo militare rigido, con visiera.

 

Al servizio costiero invece veniva assegnato il "Corpo Reale Artiglieria da Costa", comandato da un Capitano di Vascello coadiuvato da 17 ufficiali, con un organico di 196 uomini di truppa e sottufficiali, la cui uniforme non si discostava da quella del Real Navi, tranne che per la presenza al colletto di bottoni con i cannoni incrociati, oltre a quelli con le ancore .

Sempre come componenti degli equipaggi navali, i soldati del Real Navi parteciparono in quegli anni oltre che alle consuete campagne nel Mediterraneo, anche alle crociere in Brasile e nel Baltico. Quest'ultima venne effettuata nel 1847 da una squadra navale con lo scopo di rifornirsi in Svezia di materie prime indispensabili e di cannoni di bronzo, e portò la fregata "San Michele" fino a Kronstad, in una visita ufficiale all'impero russo. Durante queste missioni, non prive di delicati risvolti politici e diplomatici per la presenza in alcuni di quei paesi di numerose colonie di italiani (e non solo piemontesi), esuli dalla patria per aver partecipato ai moti e alle congiure che in tutta Italia si susseguirono in quegli anni, i reparti di F.M., che in precedenza erano già stati sciolti due volte per aver aderito a movimenti rivoluzionari, si comportarono come tetragoni tutori dell'ordine e della disciplina. Ma il vecchio spirito non era spento, come si vedrà.

Le campagne del 1848 e 1849. Il Real Navi si batte a Goito, Peschiera e Pastrengo.

Alla prima guerra per l'indipendenza il Real Navi partecipò con effettivi aumentati. Infatti oltre che dover mantenere i consueti impegni di difesa costiera e di presenza sulle navi della flotta, il reparto fu richiesto di inviare un battaglione scelto per partecipare alle operazioni terrestri, che avrebbero richiesto l'attraversamento di numerosi fiumi e una serie di operazioni lungo l'arco alpino che, per la ricchezza di bacini lacustri dal Lago Maggiore al Garda, avrebbero potuto richiedere la sua specifica preparazione. Così il 28 marzo del 1848 un battaglione di 350 uomini partì da Genova diretto al confine lombardo. Lo comandava il maggiore Alli-Maccarani, che aveva sposato la figliastra dell'ammiraglio Des Geneys, fondatore della flotta, morto nel 1839. Il 9 aprile il reparto ebbe il battesimo del fuoco al combattimento per la presa del ponte di Goito, che non va confuso con la battaglia di Goito dello stesso nome, combattuta il 30 maggio successivo.

Costretti a ritirarsi da Milano per l'insurrezione popolare, non volendo affrontare l'esercito piemontese prima di avere consolidato la propria posizione nella zona fortificata del quadrilatero costituito da Verona, Peschiera, Mantova e Legnago, gli austriaci si erano ritirati col grosso delle truppe oltre il Mincio, ma ad occidente dello stesso presidiavano i ponti di Goito, Valeggio e Monzambano, mantenendo una compagnia sulla riva occidentale in corrispondenza di ogni ponte, Ad ognuna di esse facevano da rinforzo sulla riva orientale un battaglione di fanteria ed una batteria, a loro volta appoggiati a sostegno da due battaglioni, e pochi chilometri più indietro, davanti a Villafranca, da 15 battaglioni di fanteria che costituivano il grosso del I° Corpo. Alle 8 del mattino del 9 aprile l'avanguardia della prima divisione dell'esercito piemontese, costituita da un plotone di Aosta Cavalleria, dalla compagnia di bersaglieri divisionali (150 uomini) e da 300 soldati del Real Navi, viene a urtare nella resistenza accanita di una compagnia di Kaiserjager che, vigorosamente incalzata, viene costretta ad abbandonare il villaggio di Goito in cui aveva tentato di trincerarsi. Successivamente viene ricacciata oltre il ponte, che i genieri austriaci riescono però a fare saltare. Nel combattimento gli austriaci avevano avuto numerosi morti e feriti, e persa una quarantina di prigionieri. Anche gli attaccanti avevano subito numerose perdite, tra cui il colonnello Alessandro La Marmora, fondatore dei bersaglieri, gravemente ferito alla mascella, e il maggiore Alli-Maccarani colpito alla spalla destra. I due eserciti si fronteggiarono scambiandosi attraverso il fiume un nutrito fuoco, rinforzato sia da una parte che dall'altra dal sopraggiungere di altri reparti e, in particolare da parte piemontese di una batteria con la quale fu finalmente possibile controbattere l'artiglieria austriaca. A quel punto, poiché l'esplosione non aveva distrutto completamente il ponte, ma una spalletta era rimasta intatta, sotto il tiro di protezione dell'artiglieria che costringeva ad arretrare i famosi cacciatori tirolesi, truppa scelta dell'esercito austriaco, una parte del Real Navi e dei bersaglieri si lancia in fila indiana all'attacco, conquista un cannone, cattura una trentina di nuovi prigionieri e crea una testa di ponte che, successivamente rinforzata da altre truppe, consente il giorno seguente all'esercito il passaggio del fiume.

Dopo questo fatto d'armi in cui il battaglione operò unito, nonostante gli encomi ufficiali, le medaglie e le promozioni assegnate al reparto, i soldati del Real Navi vennero suddivisi ed aggregati a diversi corpi dell'esercito. Tale criterio di frammentazione, che già era stato applicato ai bersaglieri riducendone le capacità operative da quelle di una potente unità d'urto alla semplice attività di esplorazione divisionale, venne allora, come spesso in seguito, applicato ai reparti di F.M., secondo una logica che l'allenatore della nazionale di calcio Sacchi sembra abbia derivato dagli stati maggiori italiani : "se una cosa funziona, cambiala".

Comunque suddivisi, i fanti del mare seppero sempre comportarsi esemplarmente, sia all'assedio di Peschiera, dove furono aggregati all'artiglieria da assedio, compito per il quale erano come già detto preparati, che nel controllo dei movimenti austriaci sulle acque e lungo le coste del lago di Garda, utilizzando due piroscafi, il "Benaco" e il "Ranieri", ed alcuni barconi, appositamente trasformati e armati. In tale attività funzionarono anche da copertura sul fianco destro per i movimenti dei reparti di volontari che operavano nel Trentino.

Due compagnie del Real Navi parteciparono col consueto slancio allo scontro di Pastrengo e alla battaglia di Santa Lucia, dalla quale per l'insipienza dei capi l'esercito piemontese si ritirò come sconfitto, quando a giudizio degli stessi austriaci aveva in realtà vinto. Da lì iniziò quella serie di sempre più gravi errori politici, strategici e tattici che, non più compensati da altrettanto gravi errori degli austriaci, che in precedenza avevano bilanciato l'andamento della campagna, portarono alla ritirata dal Veneto e dalla Lombardia e all'armistizio Salasco.

Anche alla campagna del 1849 il Real Navi partecipò con quattro compagnie che furono aggregate alla 3° Brigata Composta, comandata dal maggior generale Paolo Solaroli. Era questi un ufficiale dal passato avventuroso e chiacchierato negli ambienti di Corte, che merita di essere raccontato. Vi era chi diceva fosse stato semplicemente un sarto reggimentale dell'esercito piemontese in uno dei reggimenti rimasti fedeli a Carlo Felice, e chi invece lo voleva tra gli ufficiali compromessi nei moti del 1821. Comunque, lasciato l'esercito, nel 1821 si era recato in Spagna dove aveva combattuto a fianco dei costituzionali, come ufficiale, nelle campagne del 1822 e 1823. Più volte ferito, dopo un soggiorno in Inghilterra per curarsi, si era trasferito in Egitto come ufficiale istruttore del Pasciàh Mehemet Alì. Lasciato l'Egitto perché arruolatosi nell'esercito della Compagnia delle Indie Orientali, aveva preso parte col grado di capitano alla campagna di Birmania del 1824, dopo la quale era stato inviato ad organizzare l'esercito di uno staterello semi indipendente, il Sirdhanah, situato nel nord ovest dell'India, circa nell'odierno Punjab. Al comando delle truppe indigene alleate di quelle della Compagnia, aveva partecipato alla disastrosa campagna condotta dagli inglesi in Afganistan tra il 1839 e il 1842, ma, a differenza degli inglesi, il Solaroli era riuscito a riportare i suoi uomini nel loro paese. Il Sirdhanah era governata da una Begun, che era rimasta vedova di un ufficiale inglese, di nome Dyce, da cui aveva avuto due figli, un maschio ed una femmina, Giorgiana. Il Solaroli, prima ancora della campagna afgana, aveva sposato la principessa, cosa logica nelle favole ma rara nella realtà, e alla morte della madre, gli eredi avevano accettato di vendere il regno alla Compagnia delle Indie, per cui nel 1843 il generale Solaroli era tornato in Piemonte con una bellissima moglie indiana, quattro figli, e trenta milioni di lire di allora. Aveva inoltre un'altra prestigiosa carta a suo favore, perché il cognato, David Sombre Dyce, aveva sposato in Inghilterra una nipote del potente duca di Saint Vincent, dama d'onore della Regina Vittoria. Ricevuto a Corte, nominato da Carlo Alberto dapprima colonnello onorario del Genio, poi aiutante di campo e barone di Briane, nel 1848 aveva finanziato di sua tasca parte delle spese della guerra. Capo di stato maggiore del 2° Corpo d'Armata, poi maggior generale, era stato anche decorato per il suo comportamento negli scontri di Rivoli, Santa Giustina e Volta Mantovana. Nella campagna del '49 era stato incaricato di coprire il fianco sinistro dell'armata piemontese verso il lago Maggiore e il nord Ticino. Richiamato con i reparti ai suoi ordini verso Novara, dove si profilava lo scontro dei due eserciti, venne lasciato praticamente inerte con le sue truppe a guardia della strada per Trecate e Milano, da cui non venne alcun attacco austriaco. La battaglia infatti si era sviluppata a sud e ad ovest di Novara, facendo perno sul ponte dell'Agogna, già ricordato nel racconto dello scontro del 1821. A metà giornata i piemontesi avevano costretto a ritirarsi con gravi perdite il 1° e il 2° Corpo d'Armata austriaci. Se a quel punto ci fosse stato un deciso contrattacco dell'esercito piemontese prima che il Radetzki potesse schierare il 3° e il 4° Corpo in parte bloccati dai carriaggi intasati sulle strade, l'esito della battaglia sarebbe stato ben diverso. Ma il Comando piemontese non si rese nemmeno conto della situazione favorevole, né seppe utilizzare per tutto il giorno le riserve, con le conseguenze tragiche ben note. La sera la brigata Solaroli si ritirò in ordine verso Cameri, riunendosi con i resti dell'esercito oltre Novara. Con questo scontro si concluse dopo pochi giorni la guerra del Piemonte.

Ma la Corte di Torino non vuole l'attacco a Trieste e lo sbarco in Dalmazia.

Ma se queste furono le operazioni terrestri a cui parteciparono i fanti di marina, non possiamo dimenticare quanto avvenne ai loro compagni imbarcati sulle navi impegnate nella campagna dell'alto Adriatico. Le flotte alleate napoletana e sarda allo scoppiare della guerra nella primavera del 1848 avevano una netta superiorità sulla flotta austriaca. In particolare la flotta napoletana era costituita quasi tutta da moderne navi a vapore, armate inoltre con i modernissimi obici Paixhons da 80, di così recente invenzione da non essere ancora stati adottati neppure dalla marina da guerra inglese. Meno recente la flotta sarda, che poteva schierare solo due pirocorvette, ma l'insieme della potenza navale messa in campo dai due stati italiani era tale che agli austriaci, già sloggiati da Venezia dalla rivoluzione popolare, non rimase altro che ritirarsi nel porto di Pola.

Purtroppo alla superiorità materiale non corrispose la capacità di iniziativa sia militare che politica. Prima di tutto non si invitò i marinai imbarcati sulle navi austriache, e in gran maggioranza veneti e dalmati per tradizione fedeli a Venezia, a raggiungere con le loro navi la flotta italiana, presentandosi in forze davanti ai porti nemici, prima che il Comando Austriaco li sbarcasse sostituendoli con truppe fedeli di croati e sloveni. Poi non si costrinse la flotta nemica, inferiore per numero, armamento e, a quel punto, per addestramento, allo scontro, quando questa si trasferì da Pola nel meglio difeso porto di Trieste. Successivamente non si chiuse un blocco stretto intorno al porto di Trieste, permettendo che navi di tutti i paesi lo raggiungessero portando rifornimenti anche per l'esercito. Inoltre non si volle effettuare uno sbarco in Istria, pur avendo occupata l'isola di Lussinpiccolo, né da quella base si vollero effettuare sbarchi di Fanteria di Marina e reparti di volontari in Dalmazia, come veniva richiesto dal Generale Guglielmo Pepe, comandante dell'esercito del Governo Provvisorio di Venezia, con l'obbiettivo di suscitare in quel territorio rivolte popolari che, collegandosi coi rivoltosi ungheresi, avrebbero costretto gli austriaci a spostare parte delle loro forze su un nuovo fronte, riducendo la superiorità che Radetszki stava riacquistando sul fronte di terra.

Sostenitore di una maggiore aggressività era il contrammiraglio Giorgio Mameli, allora cinquantenne, a cui la corte di Torino aveva preferito come comandante della squadra l'ultrasessantenne Albini. Le discussioni tra i due dovettero essere così violente che ben presto tutta la flotta ne fu al corrente, ma in realtà l'Albini, in precedenza sempre stato un ottimo ufficiale, riceveva da Torino ordini contrari ad ogni iniziativa della flotta o dei suoi reparti da sbarco. E' verosimile credere che gli ambienti di corte fossero contrari ad azioni che potessero in qualche modo dare maggior forza al Governo Provvisorio di Venezia, repubblicano, che in caso di successo avrebbe potuto pretendere di trattare da pari a pari con i Savoia? Il sospetto è legittimato dai cattivi rapporti esistenti anche con gli insorti milanesi, e in genere nel cattivo uso fatto dal Comando piemontese dei reparti di volontari, e dei soldati napoletani, pontifici, toscani che erano stati inviati da quei governi in aiuto all'esercito piemontese. Qualcuno preferiva forse dimostrare che la cacciata degli austriaci dall'Italia era merito esclusivo dei Savoia, e che ad essi doveva quindi toccare ogni premio. Certo se questo fu il calcolo si dimostrò presto sbagliato.

Resta comunque dimostrato che da Torino vi furono ordini segreti tali da dissuadere l'Albini sia da operazioni di sbarco sulle coste istriane e dalmate che da applicare a Trieste un rigido blocco e tanto meno di attaccare tale piazzaforte. L'inoperatività della flotta a lungo andare fu causa di una tale tensione tra gli equipaggi che, quando nel marzo '49 il comando piemontese ordinò lo sbarco del Mameli, per i suoi contrasti con l'Albini e per la posizione filo mazziniana e repubblicana del figlio Goffredo, i marinai diedero origine ad una serie di violentissime dimostrazioni, dichiarando di essere pronti ad ammutinarsi se il Mameli lo avesse ordinato, e i fanti di mare, schierati in armi sulle tolde delle navi, chiedevano solo di essere sbarcati sulle coste tenute dagli austriaci, per iniziare quella guerra d'attacco per cui erano stati addestrati e che si vedevano sfuggire.

Ma il Mameli era un soldato troppo leale al suo giuramento per non obbedire, e sbarcò.

Le operazioni navali nel '49 praticamente non ebbero inizio, tanto subitanee furono la sconfitta di Novara e l'abdicazione di Carlo Alberto. E qui vi fu una pagina nera nella storia della Fanteria di Marina. All'annuncio del nuovo armistizio, che abbandonava alla vendetta austriaca Venezia e Roma, i marinai della flotta che, intatta, si vedeva sconfitta senza aver combattuto, e i cittadini di Genova, uniti insorsero chiedendo "Repubblica e guerra all'Austria". Furono proprio i soldati della Fanteria di Marina, e in particolare il battaglione che così bene si era comportato negli scontri di Goito e Peschiera, che, unitamente ai bersaglieri di La Marmora, domarono con estrema durezza la rivolta a terra come a bordo delle navi. Il governo reazionario che per due anni governò il Piemonte dopo la fine della guerra, decise di conseguenza di aumentare gli organici di tali reparti in cui riteneva di poter riporre ogni fiducia, ma solo per ragioni di politica interna, anzi, di polizia , e non per una più ampia visione di politica estera. Di conseguenza fino al 1851 gli organici del Real Navi furono superiori a quelli degli equipaggi della flotta. Ma quando Cavour divenne Ministro della Marina, cadute le ragioni di politica interna, i reparti furono ridimensionati. Evidentemente nemmeno il grande politico vedeva in quel momento la flotta e la fanteria di marina come uno strumento potente a cui dare certo altri scopi, ma da non indebolire proprio in vista di quanto egli si prefiggeva. E nemmeno il genio di Cavour seppe vedere proprio nell'Adriatico il fianco debole dell'Austria su cui fare leva per una guerra italiana.

Dalla campagna del Mar Nero alla seconda guerra per l'indipendenza nazionale.

Dopo il 1850, il Governo piemontese subentrato a quello della pace forzata con l'Austria, si diede l'obbiettivo di preparare il paese ad una nuova riscossa. Preparazione che oltre ai campi della politica e della diplomazia, non poteva non riguardare anche l'esercito e la marina. In quegli anni in cui la flotta si stava ammodernando, la fanteria di marina non ebbe occasioni di impiego, anche se naturalmente i suoi componenti erano presenti sulle navi della Divisione navale che accompagnò le truppe inviate a partecipare alla campagna di Crimea e al blocco di Sebastopoli, come sulla fregata "Beroldo" inviata in crociera nell'Oceano Indiano, e sul brigantino "Colombo" impegnato in un viaggio lungo le coste dell'Africa e dell'America Meridionale.

All'inizio del 1859, in previsione della prossima guerra, Cavour, che ricopriva anche il dicastero della Marina, diede ordini segreti di mobilitazione della flotta. Comandante di tutto il Real Navi era divenuto il colonnello Alli-Maccarani, già distintosi nella campagna del '48, che in vista della necessità di concentrare in una sola struttura i servizi di arruolamento, vestizione, armamento ed istruzione delle reclute e dei richiamati, nonché di riunificare i piccoli reparti dispersi nei diversi servizi a bordo e a terra, ottenne l'autorizzazione a costituire un Deposito, quale centro amministrativo, come si era fatto per i corpi dell'esercito. Inoltre, sempre su sua richiesta, con ordine del ministro del 7 giugno 1859, il Battaglione venne trasformato in Reggimento Real Navi, e i reparti destinati alle operazioni terrestri vennero concentrati al Varignano. Quando successivamente l'andamento della campagna di guerra ed i moti popolari per i plebisciti costrinsero il Granduca ad abbandonare la Toscana, un reparto di fanteria di marina fu inviato di scorta al Commissario Straordinario del Re per il governo della regione, e lo scortò prima a Livorno, e poi a Firenze e a Siena, ovunque accolto con entusiasmo. Altre due compagnie vennero inviate a Modena, due a Massa e Carrara, altre a Parma, per cui in breve quella truppa di mare si trovò con gli organici distribuiti attraverso tutta l'Italia Centrale, a garantire l'ordine e la pace per quelle popolazioni nel corso dei plebisciti che via via si susseguivano. I reparti imbarcati seguirono lo stesso destino della flotta, impiegata assieme a quella francese nell'alto Adriatico. Ma la campagna del 1859 non si differenziò molto da quella del '48. Bloccata la flotta Austriaca nelle basi di Pola e Trieste, creata una base nell'isola di Lussinpiccolo, gli alleati si preparavano ad assalire Venezia dal mare, ma, ancora una volta, la lentezza dei comandi superiori ritardò tali operazioni che poi furono definitivamente bloccate dall'armistizio di Villafranca.

 1860 : i soldati del Real Navi partecipano all'attacco ad Ancona, ma molti anche disertano per raggiungere Garibaldi in Sicilia.

Quando i Mille di Garibaldi sbarcarono in Sicilia, la Divisione Navale si portò in quelle acque, apparentemente in veste di osservatore neutrale, in realtà per appoggiarli segretamente senza compromettere troppo il Governo di Torino. Il richiamo della figura del condottiero nizzardo era però tale che molti soldati abbandonarono le navi per raggiungere i garibaldini e partecipare a quella vittoriosa campagna. Il fatto raggiunse dimensioni tali da preoccupare i comandi della Marina, che dovettero arrivare ad un accordo con l'esercito del Sud, nel quale questo si impegnava a non accettare nei suoi ranghi i disertori dei reparti regolari dell'esercito regio.

La successiva conquista della Calabria e della città di Napoli da parte dei garibaldini spinse il Cavour ad ordinare al generale Fanti di marciare verso il regno di Napoli attraversando le Marche, che appartenevano allo stato pontificio. La Divisione Navale venne quindi incaricata di attaccare la città di Ancona, in appoggio a tale manovra. A queste operazioni presero naturalmente parte i soldati del Real Navi, e parecchi di loro ebbero ricompense al valore. Una compagnia, in particolare, sbarcata nel piccolo porto di Giulianova, inseguì attraverso la montagna un reparto misto di soldati pontifici e borbonici, fino al forte di Civitella del Tronto, che per la sua posizione naturale prometteva ai fuggiaschi la possibilità di una lunga resistenza. Tale evento avrebbe creato dei problemi al Cavour, perché questi sapeva che solo la rapidità delle operazioni e la mancanza di ogni prolungata resistenza (dimostrazione dell'assenso generale delle popolazioni all'annessione) gli garantiva il silenzio e la tacita accettazione delle Cancellerie europee. Ma la sua preoccupazione non ebbe modo di manifestarsi altro che a posteriori con un elogio personale ai fanti del Real Navi, perchè questi, con l'appoggio di due cannoni sbarcati dalle navi e portati fin lassù per sentieri impervi, e di due compagnie di fanti del 39° di linea, dopo un violento bombardamento e avendo respinto alcune sortite fatte dagli assediati, ebbero in pochi giorni ragione di ogni resistenza. La Squadra Navale quindi si portò davanti a Gaeta, per il blocco di quella fortezza in cui si era ritirato l'ultimo re borbonico, e anche qui i fanti di mare fecero come sempre il loro dovere. Arresasi Gaeta, nel febbraio del 1861, e capitolata poco dopo anche Messina, il Regno di Napoli e quello di Sardegna si fusero nel nuovo Regno d'Italia. E nello stesso modo si fusero le flotte, e il Reggimento Real Navi Sardo venne fuso con l'analogo Corpo Napoletano e con quello Siciliano costituito da Garibaldi.

La riorganizzazione venne fatta sulla base di due reggimenti, sotto il nome di Corpo Fanteria Real Marina. Ogni reggimento fu formato su tre battaglioni di sei compagnie. Furono armati con carabine rigate e con sciabole-baionetta. L'istruzione impartita era la stessa dei bersaglieri, e simile a quella dei bersaglieri era l'uniforme, con differenze solo nei distintivi.

Così organizzata la Fanteria Marina prestava servizio nei tre Dipartimenti di Genova, Napoli e Ancona, in alcune isole, e a bordo delle navi. Ma a questo punto la storia della fanteria di marina sarda è naturalmente finita, e gli avvenimenti successivi con le loro avventure e le loro glorie fanno parte di un'altra storia.

 

Breve bibliografia per chi voglia approfondire :

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Marasco Giuseppe - Giorgio Mameli, il capitano delle mezze galere.- Ed Sabatelli, Genova 1980

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Prasca Emilio - La Marina da Guerra di Casa Savoia delle origini.- 1892

Prasca Emilio - L'ammiraglio Giorgio Des Geneys e i suoi tempi.- Pinerolo, 1926.

Dell'Onore Erasmo - Domenico Millelire nel 1793.-

Molli Giorgio - La Marina antica e moderna.- Genova, 1906

Campodomenico Pierangelo - La marina genovese dal medioevo all'unità.- Genova, 1991.

Casparinetti Alessandro - Le uniformi della Marina.- Roma, 1961.

Romiti Sante - Le marine militari italiane nel Risorgimento.- Roma 1950

Spinola Ippolito - Ricordi di un vecchio marinaio.- Roma, 1884.

Monti Antonio- Dizionario del Risorgimento Nazionale- Vol 3-4.

Santarosa Santorre -Della rivoluzione Piemontese nel 1821.- Ponthenier, Genova, 1849.

Manno A.- Informazioni sul 1821 in Piemonte.- Firenze, 1879.

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